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Macron lavora per l’accordo 2.0 con l’Iran. Ma Zarif vola in Cina e Trump…

Quando Javad Zarif, ministro degli Esteri iraniano, è apparso a sorpresa all’incontro annuale del vertice del G7 domenica, i meno attenti hanno pensato che si potesse trattare di una svolta nel conflitto tra Teheran e l’Occidente, che si è annodato negli ultimi mesi su petroliere, droni e programma nucleare dell’Iran.

I più smaliziati hanno interpretato la presenza di Zarif – l’uomo simbolo per la Repubblica islamica dell’accordo Jcpoa stretto nel 2015 – come una mossa del presidente francese, Emmanuel Macron, per marcare la differenza di approccio che ha Parigi, e altri partner G7 europei, al dossier iraniano rispetto a Donald Trump.

E come spesso accade la verità sta nel mezzo: Macron ha arrangiato la puntata di Zarif sulla costa basca (il vertice s’è svolto a Biarritz) avvisando tutte le controparti dell’arrivo dell’iraniano durante la cena di accoglienza pre-vertice, venerdì sera. Tutte tranne una: Trump, messo al corrente della presenza del capo della diplomazia iraniana soltanto sabato, durante la colazione di lavoro franco-americana.

Ma Trump non è rimasto spiazzato. Mentre twittava sulla bontà dei faccia a faccia con gli altri Grandi, ha fatto sapere senza troppa ufficialità di aver accettato l’azzardo di Macron e di voler vedere la mano del francese. L’Eliseo s’è trovato però a correggere una precedente dichiarazione in cui sembrava che Parigi avesse ricevuto un’investitura da parte degli altri sei per trattare con l’Iran e avanzare qualche proposta.

Niente affatto: replica della delegazione americana; Trump è stato avvisato, ci sta, ma non ha dato mandati a nessuno. Zarif è arrivato a Biarritz per proseguire il dialogo avviato venerdì col ministro Esteri, Jean-Yves Le Drian, è stata a quel punto la correzione francese. Ma è chiaro che l’operazione, al di là dei fondamentali dettagli protocollari, è fluida e nemmeno Washington perde occasione per contatti.

Gli Stati Uniti non hanno partecipato agli incontri con Zarif; c’erano sia i tedeschi (in questi giorni molti criticati per via della troppa disponibilità concessa dal presidente, Frank-Walter Steinmeier, durante l’insediamento del nuovo ambasciatore iraniano a Berlino) che gli inglesi (parte del club che sta pattugliando il Golfo Persico per tenere le petroliere al sicuro dalle minacce dei Pasdaran). Trio che ha trasformato i colloqui al G7 facendogli prendere la forma del tavolo classico che lavora per salvare l’accordo sul nucleare.

In fondo, per l’americano se il francese riuscisse a spostare qualcosa su un nuovo accordo con Teheran, comprendente sia l’influenza regionale sia il pacchetto missili, sarebbe un gioco favorevole. È stato lo stesso segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, a ribadire – senza citare la visita di Zarif – che Trump è ancora convito di voler trattare con l’Iran. Il presidente americano ha dichiarato a conclusione del vertice che si vorrebbe incontrare  con il suo omologo iraniano “se le circostanze saranno corrette”, ma “nel frattempo devono essere buoni giocatori”.

Con un piccolo cadeaux di Macron che non è dispiaciuto al Prez, perché in fondo l’iraniano per trattenersi in Francia ha fatto ritardare una visita in Cina – dove è volato oggi per continuare sulla “diplomazia attiva”, come l’ha definita, e discutere dell’export petrolifero sulla Via della Seta. Il ritardo non è piaciuto a Pechino che tiene in primo piano gli aspetti d’etichetta nelle relazioni internazionali. Ancora più pensando che Zarif ha cambiato agenda per partecipare all’incontro delle potenze occidentali.

Tant’è che il capo della diplomazia di Teheran ha dovuto recuperare in un tweet spiegando che la pausa a Biarritz è servita per “cambiare aereo”. In un articolo pubblicato, ieri, sul quotidiano governativo Global Times, il ministro iraniano ha sottolineato l’importanza di mantenere stretti legami con Pechino, elogiando “il continuo sostegno della Cina al pacifico programma nucleare dell’Iran e azioni efficaci al fine di superare le sanzioni illegali e unilaterali che hanno impedito all’Iran di ottenere i benefici economici promessi dall’accordo”. L’Iran che cerca di uscire dall’isolamento internazionale tramite la Francia, o l’Ue, è accettabile perché Washington riesce a usare leve; ma se Teheran prende la strada cinese diventa tutto più problematico.

Tuttavia a rovinare parte dei piani è stato proprio l’Iran, che ha preso una linea rigida. Una posizione negoziale, è vero, ma anche frutto di dinamiche interne. Domenica, i funzionari iraniani hanno detto a Reuters che Teheran avrebbe insistito sull’ottenere semaforo verde all’export di almeno 700mila barili di petrolio al giorno. Vuole salvarli dalle sanzioni americane, sia dirette che secondarie (problema che rende Teheran isolata perché tutti temono la scure Usa).

Gli americani hanno replicato, informalmente alla Bloomberg, che permettere all’Iran di ritornare a vendere petrolio e far rientrare gli Stati Uniti nell’accordo, anche solo momentaneamente – il tempo di riavviare nuove e più ampie trattative – è un non-starter. Posizione, reciproche, prevedibili. Washington non molla, Teheran è alle strette.

Il governo iraniano è pressato dall’interno: l’aumento delle tensioni seguite dal ritiro americano dal Jcpoa ha prodotto il rinvigorirsi delle posizioni oltranziste (quelle di alcuni lati più guerreschi dei Pasdaran, per esempio, che tramano piani anti-occidentali attraverso proxy regionali in Medio Oriente). E questo ha ripercussioni sulla postura internazionale del paese.

I funzionari iraniani dicono che la riapertura dei rubinetti del greggio sarebbe un “gesto di buona volontà” per rilanciare i colloqui sull’accordo nucleare, perché il governo di cui Zarif fa parte, guidato dal presidente Hassan Rouhani, ha scommesso tutto sulla riqualificazione economica e diplomatica che il paese avrebbe ottenuto trattando il congelamento del programma nucleare con l’Occidente. Ma se il programma frana, crolla anche la possibilità di crescita per l’Iran, e i critici estremisti ritornano a battere cercando consensi.

(Foto: Twitter, @JZarif)

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