Per capire cosa è successo in questi giorni bisogna tornare un po’ indietro, e arrivare poi all’evento decisivo, il sinodo sull’Amazzonia.
Settembre 2019. Un milione di fedeli si unisce a papa Francesco in occasione della celebrazione ad Antananarivo. Gli stessi organizzatori speravano di arrivare a 800mila. I numeri non contano, ha detto Francesco, ma il fatto ricorda la grande messa celebrata a Seul anni fa, quando i fedeli che parteciparono alla grande messa superarono il numero dei cattolici presenti nel Paese. Molti cristiani di altre Chiese erano infatti in piazza.
Maggio 2019. Diciannove intellettuali cattolici, non tutti conosciutissimi, divulgano una lettera nella quale si definisce Francesco un “papa eretico” per sette gravi motivi, chiedendo ai vescovi di trarne le dovute conseguenze. Il vice presidente dell’università domenicana di Washington si chiese “ come accusare un papa di eresia per nomine di basso livello inviategli per formale approvazione o per vesti consegnategli per uso liturgico”. Comunque è stato uno degli atti che hanno testimoniato il rischio di uno “scisma elitario”: visti i numeri esigui dei proponenti colpisce che gli abbia corrisposto un rilevante riverbero sulla stampa americana. Se diciannove altrettanto poco conosciuti intellettuali cattolici avessero chiesto a certi vescovi americani di smetterla con le critiche al papa il riverbero non sarebbe stato analogo. Per questo si può dire che quando Limes, la rivista di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo, pubblicava un prezioso lavoro di Diego Fabbri intitolato “America vs Vaticano: ritorno al futuro” non esagerava. La tesi forte dell’articolo, che paventava il rischio di uno scisma a stelle e strisce, era questa: “L’America non ammette il riscoperto universalismo vaticano. Per decenni Washington e Roma avevano vissuto in regime di (parziale) desistenza, perché la Chiesa era saldamente schierata nel fronte statunitense, per volontà di Giovanni Paolo II, fervente anticomunista, e di Benedetto XVI, convinto eurocentrico. Mentre il terzomondismo antagonistico di Francesco, vettore attuale dell’azione petrina, è ritenuto incompatibile con gli interessi americani. Di qui la plateale opposizione nei confronti della sua politica estera, espressa dallo Stato federale e parzialmente dalla Casa Bianca. In questa fase il contrasto tra superpotenze si palesa sul piano domestico e internazionale. In America si declina nelle resistenze dell’episcopato al progressismo di Bergoglio e nella definitiva ascesa dei cattolico-evangelici, essenza dell’entourage trumpiano.”
Questa essenza appare molto simile a quella che da tempo parla di “papa-eretico”. Il cardinale americano Leo Burke, ha ricordato il teologo italiano che insegna negli Stati Uniti Massimo Faggioli, ha detto che non insegnerebbe la modifica del catechismo voluta dal papa sulla pena di morte. In Texas un vescovo gli ha dato ragione. Dunque la situazione odierna è diversa da quella in cui altre critiche sono state rivolte ai papi. E Francesco chiamando le cose con il loro nome cerca di aiutare ad inver-tire il processo. Infatti ha detto di pregare che non ci siano scismi, aggiungendo, fatto inaudito per i papi, di apprezzare ogni critica esplicita e fatta in modo costruttivo. Ha detto anche però di non ave-re paura di uno scisma. Così dicendo non ha echeggiato il “non abbiate paura” di Giovanni Paolo II? Quando Francesco ha detto che lui copia Giovanni Paolo II ha detto quel che oggi dovrebbe essere a tutti chiaro. Giovanni Paolo II, papa dell’est, più che filo americano era antisovietico, era un medico di quel cancro, il muro, che umiliava l’uomo al di là della cortina di ferro. Analogamente Francesco, papa del global south, è un medico di quel cancro, il muro, che umilia il sud del mondo al di là della nuova cortina di ferro. Non disse questo ad Obama quando gli disse “presidente, se vuole risolvere il problema del suo paese con l’America Latina risolva il problema di Cuba.”? E il nuovo rapporto vaticano con Cuba non lo aveva avviato Giovanni Paolo II? Forse qualcuno in America, studiando le questioni ecclesiali, si è accorto che solo introdurre una dinamica cesaropapista anche nel mondo cattolico avrebbe consentito di non fare i conti con l’universalismo cattolico. E la morale sessuale è l’arma migliore per cementare un cesaropapismo a basso costo.
Da quando il presidente di “America first” è arrivato alla Casa Bianca molte cose sono cambiate. Lo stratega della guerra al papa, Steve Bannon, è stato allontanato da tempo. Ma la virulenza dell’attacco a questo pontificato non è andata in pensione. Ancora in tempi recenti esponenti della destra politica americana assicuravano che questa volta la CIA avrebbe saputo non farsi cogliere di sorpresa dal prossimo conclave. Così le iniziative di alcuni dentro la Chiesa hanno avuto anche il sapore di un’azione sì interna, ma con consensi politici. E l’ex Nunzio del “tua culpa”? Ripensando a tutto questo sembra però proprio cogliere il punto Christopher Lamb quando osserva che la conferenza del porporato più avverso a Bergoglio, in programma il mese prossimo per preti e seminaristi a fronte di un contributo individuale di 500 dollari, conferma l’idea di Francesco che certi scismi sono un fatto di élite. Ma quanto è la politica a “teleguidare” le lotte religiose e quanto sono invece i circoli o think-tank teologici a influenzare la politica? I teologi del Vangelo della Prosperità, quel Vangelo tutto nuovo che individua in povertà e malattia un’assenza di amore di Dio verso chi non lo ha meritato, sono funzionali alla politica o è certa politica funzionale a loro? La discussione è ovviamente aperta e lecita, ma non sembra che Limes abbia esagerato. Lo conferma la strana “guerra” alla riforma dell’Istituto Giovanni Paolo II. Chi crede che Gesù abbia detto “io sono la verità” e non “io sono la via, la verità e la vita” ha problemi con l’esegesi. Ma questo non deve interessare molto politici che soffiano sul fuoco dello scisma. A loro interessa un cristianesimo che in cambio di “rigore normativo” sarà fedele al patto tra trono e altare?
L’amministrazione Trump ha conosciuto stagioni diverse che hanno però costantemente puntato sul romano pontefice: incoraggiando e abbracciando posizioni e pensieri contrari a Roma. Ma tra Casa Bianca e Santa Sede il confronto resta sulla realtà politica e sulle emergenze politiche del mondo. Oggi quelle emergenze si chiamano in primis Clima, Medio Oriente, Venezuela, Corea, Cina. Tutti temi sui quali le parti sono apparse a lungo almeno distanti, pur avendo dimostrato il Vaticano di non aver alcun pregiudizio apprezzando tentativi sulla Corea. Ora è difficile discutere che il discorso fortissimo e chiaro di Francesco sullo scisma chiami in causa settori “culturali” a lungo appoggiati dalla Casa Bianca. L’intromissione negli affari altrui nasce lì, non certo in vati-cano. Il tentativo, poi fallito anche per questioni di fideiussioni, dell’accademia sovranista di Trisulti lo conferma. In ogni caso il quadro è evidentemente agitato: ma sarebbe sbagliato pensare che lo sia a Roma e non lo sia anche a Washington. Non considerando agitato anche il versante americano si potrebbe ritenere quello attuale il momento di ulteriori escalation. Ma le dimissioni, o la rimozione, del consigliere per la sicurezza nazionale, Bolton, dice che alla Casa Bianca non sono più i tempi della guerra contro tutto e tutti. E questo lo confermano anche i sondaggi, che dicono come la guerra commerciale con Pechino presupponga scenari economici che aiutano Trump, ma per la discesa in tutti i sondaggi. Può l’inquilino della Casa Bianca permetterselo a un anno dal voto? Crisi dei consensi, questione iraniana, nodo venezuelano, guerra commerciale con Pechino. Tutti scenari sui quali il Vaticano esprime un orientamento che non si incontra con quello muscolare dell’ex consigliere per la sicurezza Bolton. Proprio la sua uscita di scena appare ad alcuni l’affermazione di una linea della “non ingerenza”. E si ipotizza che Trump potrebbe incontrare il presidente iraniano al prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Saggezza, ma nel nome di una non ingerenza strana, che sul trumpiano New York Post loda le critiche di Francesco alla gestione corrotta degli aiuti internazionali in Africa, per arrivare però a dire che quei soldi sarebbe meglio spesi in patria: “America first”, più che “non ingerenza”.
Ma proprio la voce sull’incontro cercato con il presidente iraniano, il nemico da abbattere, legittima un altro scenario americano, quello del bisogno di nuovi equilibri, urgenza indiscutibile di un mondo drammaticamente scosso e terreno d’eccellenza della diplomazia vaticana. Cercare nuovi equilibri non è stato il lavoro in cui questa Casa Bianca ha dato il meglio di sé, ma potrebbe aiutare i sondaggi. E visto che l’idea di incontrare il presidente iraniano è stata espressa vuol dire che per il mutevole Trump tutto è possibile, anche l’idea di chiedere un’udienza papale. Quando andò in Vaticano fu evidente cosa gli interessasse: poter mettere sul suo account twitter la foto del suo essere a faccia a faccia col papa. Per rifarlo i temi di attualità politica non mancherebbero. Personalmente ne dubito, ma certamente sarebbe un modo per allontanare l’amministrazione Usa da un’altra guerra, questa non solo mal combattuta ma anche destinata alla sconfitta. Tutto sommato un presidente-candidato in difficoltà nei sondaggi di tutto ha bisogno fuorché di guerre, a maggior ragione di guerre destinate ad esito infausto. Perché lo sviluppo umano integrale di Francesco dà tremendamente fastidio, ha nemici soprattutto nei grandi apparati, ma pensare di distruggere l’Amazzonia per non fare i conti con la logica dello sviluppo umano integrale dimostra a troppi che lo sviluppo umano integrale ormai non ha alternative. E chi vuole vincere le elezioni potrebbe anche farsi due conti. Anche se l’unica molla sarebbe risalire nei sondaggi. Tutto sommato la storia ci dice che Giovanni Paolo II ricevette almeno due volte Gromyko. Al riguardo è interessante notare che molti storici sostengono che al tempo l’Unione Sovietica, pur non avendo alcun interesse per la liberazione dei popoli, si impegnò molto per favorire alcuni estremismi teologici.
Ma gli scenari plausibili, o non plausibili, contano poco a fronte della realtà, e oggi la realtà si chiama “sinodo per l’Amazzonia”. È lì che che la vera questione emergerà in tutta la sua forza epocale. Creare una globalizzazione poliedrica, rispettare i popoli, le culture, l’ambiente, l’uomo: è questa la sfida a cui il papa nato nel global south chiama la Chiesa, e non solo, visto che questo sinodo è intimamente legato con il senso profondo della Dichiarazione sulla fratellanza umana. Ecco perché è soprattutto del sinodo sull’Amazzonia che bisogna parlare, oggi.