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Boris Johnson e la grande frode alla democrazia britannica

Se l’Italia dei concitati giorni agostani ha fatto sbizzarrire i titolisti di tutto il mondo, alla luce del capriccioso, e per molti versi oscuro, andamento della crisi di governo, la Gran Bretagna con l’eterno ritorno della scadenza della Brexit non è stata da meno. Tanto che nei corridoi di Bruxelles corre la malalingua che i politici di Oltremanica stiano prendendo lezioni dai nostri su come (non) saper gestire uno stallo. Eppure gli inglesi, of course, in questo ci hanno superato: il premier Boris Johnson ha deciso di “occupare” il Parlamento. In gergo si chiama “prorogation” ed è un classico esempio di come, talvolta, regole procedurali divenute col tempo meri adempimenti formali possano, all’improvviso, ridar corpo alla sostanza, o piuttosto appropriarsi di una sostanza del tutto nuova, per piegarsi al volere della politica e togliere l’imbarazzo di decisioni scomode.

Così sta accadendo a Londra, dove Downing Street, di comune accordo con la Corona, ha deciso la proroga della sessione parlamentare. Alla House of Commons, infatti, era stata depositata dall’opposizione una mozione per chiedere un voto su un ennesimo allungamento del termine per l’accordo con l’Ue. Grazie a Johnson, che non vuole più esitare e che a Bruxelles è deciso a brandire l’arma del no deal, i conservatori sono riusciti ad ottenere che la Camera bassa si ritrovi a porte chiuse dall’11 settembre al 14 ottobre, un lasso di tempo da record nella storia recente del Paese. Non si esclude, in ultima analisi persino il ricorso al voto anticipato, lo scenario peggiore per il leader laburista Jeremy Corbin.

Quattro settimane di riposo obbligato rappresentano un tempo tecnico utile per consentire a Johnson di vincere la battaglia della Brexit a modo suo. Dopo che avrà tentato di persuadere il commissario Michel Barnier a rinegoziare il deal, backstop in Irlanda incluso, Johnson potrà calare sul tavolo le sue carte. Solo allora si capirà se stava bluffando. Eppure, la giustificazione formale della proroga – una richiesta di tempo per l’aggiornamento dell’agenda governativa – convince poco.

La madre di tutte le democrazie sembra cadere sotto i colpi inferti alla sua Costituzione non scritta. La tenuta del sistema, che si è da sempre orgogliosamente fondata sul tacito e mutuo consenso delle parti, adesso, nel logoramento progressivo del tira e molla con l’Unione Europea, si sta mostrando a rischio. La mancanza di una legge suprema, vergata su carta ed intoccabile sembra essere nell’era Brexit il vero tallone d’Achille di un modello che in passato aveva rasentato l’esempio più riuscito di democrazia rappresentativa. La Costituzione inglese, che nella mancanza di forma si disperde in una evanescente ed oltraggiata sostanza, resta il vero convitato di pietra di questa tragicommedia, scarnificata all’uso e abuso delle parti forti.

Commenti e analisi piovono da ogni dove. Lasciamo al tabloid spagnolo Vanguardia il vezzo di giustapporre il rigurgito antidemocratico della perfida Albione alla mancanza di buon senso di Trump, Bolsonaro e persino Salvini, chiamati “bufones sin fronteras”. Attenzione, poi, a giudicare il Regno Unito uno “Stato fallito” come fanno i colleghi francesi di Les Echos: il paragone ai paesi dell’America Latina o dell’Africa non può reggere. Londra non sta subendo nessun colpo di Stato, non ci sono stati arresti, barricate o uccisioni. Londra va secondo le sue centenarie regole non scritte, segue le sue convenzioni costituzionali e resta libera di disattenderle a suo piacimento.

Al più, sembra logica la diffusa ed inalberata indignazione verso un atto che, nella sua facciata di legalità tutta da verificare, è sembrato oltremodo una forzatura. Da qui le tre diverse azioni di impugnazione della proroga di Johnson dinanzi ad altrettante corti. Perché la Gran Bretagna non sta virando verso una democratie à l’italienne: resta una monarchia e, lo si voglia o no, alla classica contrapposizione fra Corona e Parlamento fa da contraltare un dato di fatto quasi lapalissiano. I membri delle assemblee, infatti, sono pur sempre sudditi del regno. Dalla sua sacra istituzione di vertice derivano la loro legittimazione. Non stupisca, dunque, che di fronte alla titubanza ed inconcludenza dei titolari dello scranno parlamentare elettivo, gli sfarzosi ed anacronistici rituali del sovrano con l’ermellino impongano all’anziana regina di riporre nel cassetto tiara, borsetta e royal-hats per rispolverare l’antico scettro del potere temporale.

Per questo assumerà una valenza speciale, e non solo convenzionale, il Queen’s speech che Elisabetta terrà alla riapertura della sessione dei Commons. Just sit and wait. Si vendono popcorn.



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