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Spionaggio “minaccia esistenziale”. Allarme dell’intelligence in Australia

Il direttore generale dell’Australian Security Intelligence Organisation (Asio), Duncan Lewis, ha voluto lasciare un’eredità che ritiene fondamentale prima di ritirarsi, questo mese, dopo cinque anni di mandato: lo spionaggio ha creato per l’Australia una “minaccia esistenziale”, ha detto, peggiore di quella rappresentata dal terrorismo.

“Ritengo che al momento il problema dello spionaggio e delle interferenze straniere sia di gran lunga il problema più grave per il futuro”, ha dichiarato parlando dal palco di un incontro pubblico organizzato dal Lowy Institute. Lewis ha spiegato che per “un posto come l’Australia” – intende dire: un paese sviluppato, con istituzioni sufficientemente stabili – il terrorismo non è una minaccia esistenziale come per paesi sottosviluppati, mentre l’interferenza straniera è una faccenda vitale per uno stato, che non capta facilmente l’attenzione dell’opinione pubblica e molto spesso è difficile da riconoscere, e differentemente dagli attacchi terroristici “sta seguendo una traiettoria in crescita”, in diversi campi, a cominciare da quello cyber.

Lewis ha parlato per oltre un’ora con un’attenzione particolare: non pronunciare mai la parola “Cina”. Nemmeno quando è stato – più volte – invitato a farlo dai suoi interlocutori, che, consapevoli della situazione che vive l’Australia, chiedevano esplicitamente di collegare le preoccupazioni dell’alto funzionario a Pechino. Perché il quadro nel Paese è questo: la crescente potenza e presenza militare della Cina in tutta l’Asia-Pacifico ha creato scompiglio tra gli agenti dell’intelligence e i politici australiani.

C’è un’antologia ricca per chi vuole approfondire il tema, fornita anche in modo più accessibile tramite due serie televisive – produzione australiana – distribuite da Netflix: “Secret City” e “Pine Gap”. Quest’ultimo è il nome di un fantascientifico centro di raccolta di dati di intelligence posizionato ad Alice Springs, nel centro dell’Australia, e considerato uno dei nodi nevralgici del sistema Five Eyes, l’alleanza tra servizi segreti dal valore del mondo anglosassone che ha un valore fortissimo, genetico per i paesi che la compongono (Usa, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda).

Nella serie viene spesso messa in risalto la doppia lettura della situazione: se da una parte ci sono degli hardliner che alzano il livello d’allarme legato alle ingerenze e allo spionaggio cinese, dall’altra c’è una serie di possibilisti che vede nell’ingresso della Cina nel tessuto sociale, economico e politico australiano come qualcosa di accettabile. Da Pechino arrivano soldi e posti di lavoro, tanto val la pena rischiare è la linea di questi ultimi.

Cerchiamo uno “sweet spot”, ha spiegato Lewis, ossia un modo per trattare la questione senza esasperare i toni e mantenendo al sicuro la minoranza cinese-australiana ed evitando di perdere il contatto con gli investimenti. “Penso che sia molto importante ottenere questo equilibrio tra l’azzeramento su coloro che vorrebbero farci del male, ma allo stesso tempo non diffamare il resto della loro popolazione o della loro comunità”, ha detto parlando con responsabilità comprendendo potenziali derive.

Andrew Hastie, un parlamentare conservatore che presiede la Commissione Intelligence, ha una visione più aggressiva che ha scritto a inizio agosto in un editoriale per il Sydney Morning Herald in cui argomenta che “come i francesi [con i nazisti], l’Australia non è riuscita a vedere quanto sia diventato mobile il warfare con il nostro vicino autoritario”, ed è inutile aggiungere che si parla di Cina, Hastie ne parla apertamente. “Ancora peggio – continua – ignoriamo il ruolo dell’ideologia nelle azioni della Cina nella regione indo-pacifica”.

E qui il discorso diventa più complesso: “Gli Stati Uniti cercano di rimanere il potere dominante nella regione e la Repubblica popolare cinese lavora per soppiantarlo”, spiega il parlamentare. “Stiamo ripristinando i termini dell’impegno con la Cina per preservare la nostra sovranità, sicurezza e convinzioni democratiche, mentre raccogliamo anche i benefici della prosperità che derivano dalle nostre relazioni commerciali reciprocamente vantaggiose”.

Hastie parla della scelte “severe” fatte dal governo australiano, relative alla salvaguardia del sistema 5G – pensate per “la nostra sovranità digitale per le generazioni future” – o di reti infrastrutturali come porti e gasdotti, ma dà un senso profondo a questo confronto in atto: “In questo momento la nostra più grande vulnerabilità non sta nella nostra infrastruttura, ma nel nostro pensiero. Quel fallimento intellettuale ci rende istituzionalmente deboli”.

“L’Occidente una volta credeva che la liberalizzazione economica avrebbe portato naturalmente alla democratizzazione in Cina”, era “la nostra Linea Maginot”, ma questo pensiero “failed catastrophically”. È un’analisi condivisa da diversi strateghi a Washington: la Cina resta la Cina, e il panorama allettante dell’economia libera l’ha rafforzata ma non l’ha fatta aprire alle libertà sul terreno di valori e diritti, perché è l’ideologia che muove la Cina, il mix marxista-leninista con il pensiero di Mao Zedong a guidare il lavoro del presidente Xi Jinping.

Da mesi questo genere di retorica contro l’influenza di Pechino è argomento centrale in Australia, quasi un caso di studio internazionale a cui diversi Paesi stanno guardando mentre conducono affari di vario genere con la Cina.

In “Secret City” tutto parte dal mondo delle università: infiltrazioni, furti di proprietà intellettuale, spionaggio. C’è una fitta rete corrotta che collabora con Pechino, ci sono gli eroi che combattono per liberare il paese e ridargli quel futuro di cui parla Hastie.

Poi c’è la realtà. Poche settimane fa, l’Australian Signals Directorate si è occupato di girare tutti gli atenei del Paese per ragguagliare i supervisori degli istituiti su come – secondo le rilevazioni dei servizi segreti – l’interesse cinese per i dati sensibili dei laboratori stia crescendo. O ancora più recentemente, come ha raccontato il Guardian: l’Anticorruzione di Canberra ha bloccato una donazione da 100mila dollari fatta arrivare dal miliardario cinese Huang Xiangmo al partito laburista del Nuovo Galles del Sud, perché il tipo è “passibile di condurre atti di interferenza straniera” secondo una designazione dell’Asio.

 

 

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