Ben prima che approdasse alla Casa Bianca di Donald Trump John Bolton, ormai ex consigliere per la Sicurezza Nazionale, si era guadagnato il soprannome di “falco”. Dalla minaccia cinese alla tensione con l’Iran, passando per la questione palestinese e l’escalation con la Corea del Nord, la cura Bolton ha sempre previsto l’uso del pugno duro, degli ultimatum, dell’intervento armato, se necessario. Troppo anche per un giocatore di poker come Trump, deciso a scommettere fino all’ultimo e anche a bluffare ma sempre attento a lasciare aperta una via d’uscita. Credere però che il capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale appena licenziato dal presidente fosse il più “falco” a Washington DC sarebbe un clamoroso errore, spiega a Formiche.net Kristine Lee, ricercatrice presso il programma di sicurezza Asia-Pacifico del Cnas (Center for a new american security) e tra i massimi esperti di strategia americana in Asia.
L’uscita di Bolton avrà effetti di lungo periodo sulla politica estera americana?
In un tempo in cui gli alleati americani e i loro partner sono già scettici della solidità della leadership globale americana, la partenza di Bolton probabilmente istillerà ulteriore confusione su chi davvero all’interno dell’amministrazione Trump guiderà d’ora in poi l’agenda di politica estera degli Stati Uniti.
Cosa non funziona oggi a Foggy Bottom?
Le porte girevoli di ufficiali, anche ai più alti livelli dell’establishment diplomatico, non sono comunicanti con la consistente, stabile e coerente leadership che la maggior parte degli alleati chiede.
Bolton lascia un’impronta indelebile sul mondo diplomatico americano?
Bolton era senza dubbio uno dei membri più estremisti del cuore dell’establishment diplomatico dell’amministrazione. Detto questo, da tempo era caduto in disgrazia presso Trump. Era stato marginalizzato in alcuni dei dossier di politica estera più importanti e sensibili (in particolare quelli collegati alla Corea del Nord e all’Iran). Ciononostante, gli va riconosciuto il merito di aver fatto di tutto per impedire il ritiro unilaterale delle sanzioni contro attori ostili verso gli Stati Uniti.
Qual è la ragione profonda dietro la sua partenza?
Lasciando da parte le speculazioni, le tensioni fra le diverse comunità della Sicurezza nazionale e della diplomazia, specialmente quelle esistenti fra Dipartimento di Stato e Consiglio di Sicurezza Nazionale, esistono in ogni amministrazione americana. Certo, Pompeo e Bolton non sempre si sono guardati negli occhi e chiunque fosse in grado di accattivarsi il favore del presidente era destinato a sopravvivere all’altro.
Come cambierà ora la politica asiatica del Dipartimento di Stato?
La partenza di Bolton potrebbe riaprire uno spazio per un confronto serio fra Washington e Pyongyang. La Corea del Nord sa che la sua apertura diplomatica verso gli Stati Uniti è prossima a chiudersi e ora, liberatasi di una presenza fondamentalmente ostile che ravvisava in Bolton, Pyongyang potrebbe decidere di non voler più perdere tempo.
C’è tempo per ricucire lo strappo?
Direi di sì, a patto che l’amministrazione Trump scelga la linea della chiarezza, anche all’interno di una strategia di dialogo, spiegando che non intende svendere sul tavolo dei negoziati la sicurezza dei suoi alleati. I test di missili a corto raggio dovrebbero essere ritenuti delle provocazioni, e sarebbe opportuno non considerare più merce di scambio le truppe americane presenti nella penisola.
Cosa aspettarsi invece dal nuovo corso dei rapporti con Pechino? Bolton era un ostacolo per il raggiungimento di un accordo?
L’amministrazione Trump è determinata a tenere alta la pressione, a Washington esiste oggi un forte consenso bipartisan sulla linea dura con la Cina. Bolton era solo una piccola parte di questa equazione. Ci sono tanti altri attori, non solo nel Congresso, anche nel braccio esecutivo e fuori dal governo, pronti a demolire il presidente qualora dovesse chiudere un accordo fragile tanto con la Cina quanto con la Corea del Nord.