È singolare che il presidente del Consiglio arrivi a dichiarare nel discorso alle Camere per la fiducia al governo che è “necessario recuperare sobrietà e rigore” per favorire una “rinnovata fiducia nelle istituzioni”. Ancor più sintomatico dei tempi che viviamo è però il successivo impegno “a essere pazienti anche nel linguaggio” con la conseguente dichiarazione che “la lingua del governo sarà una lingua mite”.
È la prova che persino un protagonista della più recente vicenda politica ha potuto riscontrare di persona i costi psicologici e politici dell’impressionante polarizzazione dei discorsi pubblici, provocata essenzialmente da pochi leader a corto di congiuntivi. Essi hanno avuto la capacità di alimentare un trend verso un vero e proprio bullismo linguistico che ha caratterizzato la comunicazione politica italiana, con un aggravamento nell’ultimo biennio. Sembra quasi una rincorsa a chi riesce a trasmettere più violenza verbale, come se non fosse chiaro che essa non si arena mai alla dimensione simbolica ma spinge verso atteggiamenti trasgressivi o comunque ai limiti dei comportamenti consentiti in una democrazia.
È dunque una prova di forza che Conte abbia scelto questo item per un messaggio forte, sorprendente e che può spingere chiunque sia in buona fede a una seria meditazione sulla relazione inevitabile tra violenza verbale e comportamenti conseguenti. E non lo dico solo per il teatrino della politica. Questo è in qualche misura già compromesso da un cedimento alle logiche della comunicazione, soprattutto digitale, in cui i discorsi e i valori tipici del linguaggio politico hanno di fatto ceduto di peso a quelli imposti dalle curve polarizzate dei talk-show.
Vado intenzionalmente oltre la comunicazione politica. Mi interessa prospettare le conseguenze che l’abuso di una comunicazione gridata e sistematicamente contro si trasferisca dalle piazze alle aule parlamentari, perché anche lì occorre dire che non ci si è fermati neppure di fronte al limite del decoro da parte di persone che, sedute su lauti stipendi, accusano gli altri di aspirare a poltrone che essi stessi hanno occupato, senza domandarsi perché mai per loro non valesse l’etichetta di poltronisti. E qui è interessante annotare quali sono le gradazioni della sintassi dell’odio, che evocano i messaggi di quella grande studiosa che ci ha ammonito sulla banalità del male: c’è infatti un crescendo singolare quando i discorsi riguardano le donne. In quel caso, la lingua è più sfrenata e disinibita, mettendo evidentemente in dubbio la capacità di controllo della personalità da parte di persone che richiamano i racconti manzoniani sui tumulti per il pane.
C’è quanto basta per domandarci se un tale spettacolo offerto ai giovani, agli studenti, alle famiglie, inevitabilmente rilanciato dall’informazione, non incoraggi processi di repulsa e disprezzo nei confronti della politica e della partecipazione? E siamo sicuri che l’aumento di istigazione all’odio, soprattutto online, e la propensione a radicalizzare qualunque espressione sia senza conseguenze sulla formazione sociale della persona, sul benessere di cittadinanza e sulla speranza di vivere in un Paese connotato da relazioni civili tra i suoi abitanti?
Basti pensare all’esempio della Brexit: come non vedere che la divisione bipolare dei sentimenti e dei voti sta rischiando di compromettere la reputazione, l’autopercezione di sé e persino il futuro di un Paese che è stato decisivo per la storia d’Europa.
Qui viene bene l’idea di stressare quello slogan, apparentemente innovativo ed efficace, prima gli italiani. Chi lo ha inventato non racconta che nei contesti europei e globali una frase di questo genere è priva di senso perché divide il nostro Paese e il nostro popolo da una comunità di destino in cui i giovani sono driver. Ma soprattutto ci piacerebbe che chi dice frasi di questo genere sia consapevole che la lingua e la comunicazione sono un ponte da maneggiare con estrema cura, al punto che girerei verso di loro lo slogan chiedendo solennemente prima l’italiano!