Alle prime ore di sabato 14 settembre ultimo scorso, alle 3.31’ e alle 3.42’, i ribelli yemeniti Houthy, di tradizione sciita e sostenuti dalle “Guardie della Rivoluzione” iraniane, l’occhio destro dell’imam Qomeini, come si suol dire in Iran, hanno lanciato circa dieci droni contro la maggiore area di estrazione saudita, di proprietà dell’Aramco.
L’operazione è stata lanciata, così si dice, dall’Iraq. Sono stati centrati con i droni sia Abqaiq, il maggiore impianto di stabilizzazione al mondo e nel campo di estrazione poi la struttura di Buqaiq e infine Kurais, a circa 60 chilometri di distanza da Abqaiq. È la maggiore interruzione petrolifera, bellica o meno, nella storia. Gli attacchi sciiti hanno subito ridotto la produzione saudita di circa cinque milioni di barili/giorno, ovvero circa la metà dell’outpout giornaliero del Regno. Con gli attacchi dei droni, il mondo ha perso un output petrolifero del 6%.
Le autorità di Riyadh dicono che, già dal momento in cui scriviamo, il 17 settembre, è tutto sotto controllo. E la prima deduzione geopolitica è quella che gli attacchi attuali, ben più virulenti di quelli già avvenuti lo scorso maggio, aprono un secondo fronte di guerra dell’Arabia verso l’Iraq, il che, in ogni caso, metterebbe in grave tensione le forze armate del Regno, già assorbite, con scarsi esiti, dalla guerra in Yemen.
E, ancora, ciò potrebbe aprire uno spazio strategico nuovo, in cui gli Usa potrebbero essere costretti ad aiutare i sauditi, e Israele a dover poi proiettare la sua potenza non solo verso il Nord e il Sud dei suoi confini, ma anche in direzione della Siria orientale e dell’Iraq. E stabilmente, non come accade oggi. Certo, tutto questo riguarda soprattutto gli iraniani. Che non potrebbero, comunque, sostenere una guerra, sia ibrida che convenzionale, con l’Arabia Saudita e i suoi tradizionali alleati regionali. Peraltro, l’attacco degli sciiti Houthy alle facilities petrolifere di Riyadh è stato pensato e, probabilmente, programmato, dal capo dei Pasdaran, Qassem Soleimani.
Quindi, l’operazione degli Houthy è stata messa in parallelo con una azione, quella direttamente organizzata dai Pasdaran, il 15 settembre scorso, ovvero il sequestro di una nave, di cui non sappiamo ancora il nome, carica di oltre 250.000 litri di carburante. Tutto ciò è accaduto nello stretto di Hormuz, presso l’isola di Tunb, in acque iraniane. Una strategia full options, per dichiarare il nuovo status strategico regionale di Teheran.
La ratio dell’operazione navale delle Guardie della Rivoluzione riguarda, sempre secondo le fonti di Teheran, il rilevante contrabbando di petroli da e verso gli Emirati Arabi Uniti. Tout se tient.
L’Iran, da un lato, verificando il peso della guerra in Yemen per i sauditi, vuole aprire altri fronti del conflitto, allungando anche la catena di difesa di Israele. Si ricerca allora, da parte di Teheran, l’overstretch, il sovraccarico degli avversari storici, da parte di Teheran. Altra valutazione possibile dell’operazione con i droni degli Houthy e dell’Iran è che essa potrebbe risultare una risposta iraniana alle azioni del presidente francese Macron che, recentemente, ha tentato di organizzare un incontro, a lato dell’assemblea dell’ONU, tra il presidente Usa Trump e quello iraniano, Rouhani.
Ali Khamenei, il Rahbar e, quindi, il capo supremo dell’Iran, era però nettamente contrario a un nuovo rapporto diplomatico Iran-Usa, e le sue Guardie della Rivoluzione hanno capito subito la questione. E gli attacchi recentissimi con i droni sulle due strutture saudite non sono nemmeno gli unici e i primi: il 15 maggio scorso, ne facevamo cenno supra, sono stati attaccati, sempre con i droni, in numero di due e ancora lanciati probabilmente dall’Iraq, due stazioni di pompaggio saudite, poste sulla pipeline Est-Ovest che arriva fino al terminale petrolifero di Yanbu.
Da ciò deriva che Teheran possiede una rete efficiente e stabile, in Iraq, per lanciare attacchi, non necessariamente solo con i droni, verso il territorio saudita e le sue aree di contorno. Israele, con le sue foto satellitari, ha dimostrato che la Forza Al Qids, l’élite dei Pasdaran, sta costruendo, e forse queste operazioni ci segnalano che la base è già finita, una postazione militare iraniana sul confine sirio-iraqeno, a Albukamal. Si tratterebbe di una base per almeno 3500 uomini, con mezzi che dovrebbero servire soprattutto, ma non solo, per la “guerra ibrida”.
Israele è diventato nuovamente un obiettivo per gli iraniani, dalle nuove basi nel Nord iraqeno, gli Usa non vogliono però essere impelagati in una nuova “lunga guerra” mediorientale, anche se aiuteranno da lontano i sauditi (e, ovviamente, Israele) mentre Riyadh ha dichiarato esplicitamente che i droni iraniani sono di difficilissima tracciatura.
Sul piano economico, la crisi del petrolio saudita è comunque della grandezza della crisi petrolifera successiva alla guerra dello Yom Kippur. Crisi, però, che è davvero tale solo perché Riyadh si è dimostrata fragile, non per la sola quantità di petrolio, che è stata peraltro subito reimmessa nel saldo quotidiano, utilizzando le grandissime riserve del Regno. Ma finiranno, e nessuno sa bene quali siano davvero le riserve dei pozzi sauditi, che risultano ancora grandissime, ma c’è chi nutre dei dubbi, trattandosi del più segreto dei segreti di Stato sauditi. È stato, questo, il peggior attacco di sempre alla “banca del petrolio”, come gli analisti chiamano il Regno.
L’attacco è allora un vero e proprio game changer, ed oggi è difficile prevederne tutti gli effetti, anche da parte dei tecnici e degli analisti strategici. Dipende molto dalle mosse di Mohammed bin Salman, poi dall’impegno reale degli Usa nell’area, infine dalla futura politica militare di Israele. Secondo alcune organizzazioni di studio dei mercati del petrolio, l’operazione iraniana e degli Houthy è grave almeno quanto l’invasione del Kuwait, che pure “aspirava” petrolio iraqeno, o della stessa rivoluzione sciita iraniana del 1979.
Il presidente Trump ha già autorizzato il rilascio delle riserve strategiche Usa, le SPR, se necessario, “per mantenere i mercati ben forniti”. Ma già dalla sera del 16 Saudi Aramco dovrebbe recuperare almeno un terzo della produzione, con due o tre, al massimo, milioni di barili di petrolio sauditi che torneranno sui mercati tra due o cinque giorni al massimo, mentre altri 2,7 arriveranno sul mercato più tardi, data la natura la specificità dell’impianto di Abqaiq.
È una struttura immensa, questa, peraltro posta in un’area del Regno dove la presenza dell’Islam sciita non è affatto trascurabile, siamo a circa il 15-20%, soprattutto nelle zone orientali e tra il proletariato che lavora ai pozzi. E anche questo è un segnale politico, tra la religione e la lotta di classe, da non trascurare. All’apertura dei mercati, il lunedì successivo agli attacchi, il prezzo del barile è aumentato del 20%, con un picco di 71,6 Usd/barile.
Ma quali sono allora gli assert iraniani nella attuale guerra, che è per procura solo da un punto di vista formale, lanciata contro il grande potere wahabita e sunnita, l’Arabia Saudita? Molti e importanti.
Gli aeroporti militari iraniani sono oltre 45. Le postazioni marittime, tutte sulle coste e le isole del Golfo Persico, detenute oggi dalle Guardie della Rivoluzione sono oltre 16. Le postazioni missilistiche in Iran e in Iraq hanno diversi vettori capaci di arrivare a 2500 km. di gittata. Le capacità iraniane di area denial e access denial sono nettamente maggiori di quelle di qualsiasi paese dell’area. Teheran dispone di una flotta sottomarina rilevante, sempre sul Persico ma anche sull’Oceano Indiano, poi di una grande flotta di motobarche velocissime e pattugliatori. Sul piano militare, l’Iran non teme l’evidente sua superiorità tattica né le reazioni di primo, o perfino di secondo livello, degli avversari.
Gli attacchi cyber sono un’altra “eccellenza” iraniana, mentre solo recentemente la Saudi Aramco si è aggiornata per quel che riguarda la protezione dagli attacchi informatici, ma siamo sempre a livelli meno rilevanti di quelli di Teheran. Non a caso la società petrolifera saudita ha già subito attacchi cyber, con il virus Shamoon nel 2018 e anche i porti e le infrastrutture saudite sono, per la loro stessa collocazione geografica, scarsamente protette da attacchi missilistici o aerei. Ma anche da bombardamenti dal mare, soprattutto verso i porti di Ras Tanura e Ras Juaymah, sul Golfo Persico, e Yanbu, sul Mar Rosso, che sono difficilmente proteggibili.
E, comunque, le infrastrutture critiche saudite sono state, finora, difese solo da attacchi di tipo qaedista, non da una vera e propria operazione militare, magari con lo schermo degli Houthy, di tipo convenzionale o da guerra ibrida. Non parliamo qui nemmeno degli impianti di desalinizzazione, che elaborano il 70% di tutta l’acqua potabile distribuita nelle abitazioni saudite, oltre alle reti elettriche, che si basano sulla produzione di energia utilizzando, per oltre 2/3, l’abbondante petrolio. Punti certi di attacchi da droni, cyber o da operazioni convenzionali.
Altro punto da non trascurare riguarda uno dei punti fermi della strategia di Mohammed bin Salman, ovvero la vendita di Saudi Aramco. Ovvio che gli attacchi abbassano molto il valore borsistico della società, e guarda caso proprio negli ultimi giorni prima dell’attacco di sabato scorso la procedura di vendita aveva subito una forte accelerazione. Il costo della operazione Aramco è stato stabilito, per Mohammed bin Salman, in 2 trilioni di dollari. Sarà allora molto difficile che, con la dimostrazione della debolezza infrastrutturale saudita, i compratori corrano verso le Borse.
Ed è ancora intuitivo che l’operazione contro i sauditi da parte dell’Iran e dei suoi proxies è tale da mettere in posizioni di forza Teheran in una futura, nuova trattativa sul nucleare. La guerra in Yemen, lo ricordiamo, è iniziata quando i sauditi, nel 2015, sono entrati in quel Paese per liberare alcune zone, tra cui la capitale Sana’a, dagli insorti. Riyadh ha poi insediato un governo amico, diretto da Abu Mansur Hadi.
Riyadh non ha saputo, però, tenere le posizioni e raggiungere i suoi obiettivi strategici. Tenere lo Yemen vuol dire infatti controllare completamente il Golfo Persico e le sue attinenze. Riyadh ha tenuto solo Aden e Al Mokha e altre e poche aree, mentre il confine tra Arabia e Yemen è ancora terra di scontro, peraltro in una zona tribale, dalla parte saudita della linea, che è sempre stata scarsamente favorevole alla casa degli Al Saud e alla tradizione wahabita dell’Islam. Non tutto Ansarullah, il movimento della shi’a Houthy, è però alle strette dipendenze di Teheran. E quindi, la guerra in Yemen è una voce di costo colossale per i sauditi, di scarso rilievo per l’Iran.
Né ci si deve dimenticare del sostegno ai ribelli del Sud da parte di Abu Dhabi, degli altri Emirati e dell’Oman, Paese che ha sempre avuto una sua specifica politica verso l’Iran. Riyadh è stata colpita direttamente dai droni anche il 4 dicembre 2017, non dimentichiamolo. Solo una parte delle tribù yemenite è oggi, comunque, fedele al governo centrale di Hadi, e hanno spesso dovuto entrare in territorio saudita, mentre le altre tribù, anche sunnite, hanno appoggiato l’autonomia tribale-nazionale proposta dagli Houthy. Ma nemmeno l’Iran, alla fine, potrà controllare del tutto Ansarullah, lo ripetiamo.
Altri effetti della crisi petrolifera si vedranno in India che, per il suo decollo economico, si appoggia unicamente al petrolio mediorientale, con un 18% dei suoi consumi annui derivanti dal solo petrolio saudita. Altri paesi asiatici dovranno cambiare fornitore principale, ma anche gli Usa, malgrado la loro produzione di shale oil, hanno importato 400.000 barili/giorno fino ad oggi, nel solo anno 2019.
Non va affatto male per la Russia, che peraltro rende da anni paralleli i suoi prezzi con quelli dell’OPEC, poi per il Kuwait e gli Emirati, ma l’espansione possibile della produzione potrebbe, oggi, arrivare a un milione di barili/giorno, non sufficienti a coprire l’ammanco saudita. Tornando allo Yemen, occorre poi ricordarsi che la guerra locale è il prodotto della “primavera” sponsorizzata dagli Usa.
Quindi, è comunque improbabile che gli attacchi sulle postazioni petrolifere (e non dimentichiamo che esse sono non lontane dal confine yemenita) possano creare l’occasione di un attacco integrato saudita, Usa e israeliano contro postazioni militari iraniane in Iraq o nel Golfo Persico.
Teheran è riuscito, da una posizione svantaggiata, a creare una sua parità strategica con gli attori regionali e quelli internazionali che è il vero dato nuovo dell’attacco con i droni alle facilities petrolifere saudite di sabato scorso.