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Fine vita. Perché la guida è il giuramento di Ippocrate. L’analisi di Gambino (Scienza & Vita)

Di Alberto Gambino

Qualsiasi confronto su fine vita e eutanasia deve tenere presente che il tema è stato segnato da vicende giudiziarie “sponsorizzate” da esponenti e movimenti radicali. I casi sono noti e portano i nomi dei protagonisti di queste storie umane: Englaro, Welby, dj Fabo e Cappato. Su tali vicende, la recente legge sul consenso informato (n. 219/2017) metteva un punto fermo, trattando, in modo sostanzialmente equivalente, tanto il rifiuto quanto la rinuncia successiva del trattamento sanitario, compresa la somministrazione di liquidi nutrienti, con conseguente accudimento anche con terapie del dolore, cure palliative e sedazione.

Ora, nella vicenda di Fabiano Antoniani (dj Fabo) e il conseguente caso giudiziario Cappato, da cui origina la sentenza della Corte costituzionale, si verifica un vero e proprio salto di qualità. La Consulta ritiene che in alcuni casi il processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito, non necessariamente rapido, è la morte, non possa risolversi soltanto nella somministrazione delle necessarie cure palliative, poiché così si “costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”. Di qui la diversa prospettiva di una richiesta di accelerazione della morte con la somministrazione di un farmaco letale.

La Corte lascia trasparire la possibilità di prevedere eventualmente l’obiezione di coscienza. Qui vengono in rilievo i capisaldi appartenenti alla pratica plurimillenaria della medicina, risalenti al giuramento di Ippocrate, che vietano la somministrazione di un farmaco per interrompere un’esistenza umana. I costituzionalisti insegnano che la Costituzione non possa essere modificata negli articoli relativi alle fondamenta della Repubblica o a diritti e principi fondamentali, pena il sovvertimento del sistema democratico costituito. Il giuramento di Ippocrate, specie in quella parte che nel codice deontologico si enuclea nel divieto di porre in essere comportamenti finalizzati a provocare la morte del paziente, vale per i medici e per il loro specifico ruolo sociale alla stregua del cuore pulsante di quei principi immodificabili della Costituzione, pena il capovolgimento dei principi fondanti una professione radicata nell’ethos del nostro ordinamento.

Ci sarà, dunque, una fatica particolare nell’identificare i soggetti che presterebbero assistenza nella somministrazione del farmaco letale. Appare, infatti, impensabile che si possa intervenire su un sistema sanitario incardinato sulla relazione fiduciaria medico-paziente, ipotizzando l’inserimento di una proposta interruttiva della vita da parte del medico e, poi, coadiuvata dallo stesso.

Il quadro nel quale ragionare deve perciò improntarsi sulla realtà delle cose e non su casi giudiziari utilizzati ad arte per scardinare il sistema sanitario italiano. Le vicende di fragilità umana, che quotidianamente si constatano nelle corsie d’ospedale, non presentano dati significativi di rinunzia a curarsi, anzi si richiede spesso un supplemento di terapia.

Le legislazioni, soprattutto di stampo anglosassone, che hanno forzato la mano sul principio di autodeterminazione, l’hanno fatto quasi sempre a seguito di riforme del sistema sanitario, nell’ottica di un riordino di quest’ultimo secondo criteri di ottimizzazione della sua efficienza in termini di costi economici e di allocazione delle risorse finanziarie. L’esito applicativo ha inciso anche sulla prospettiva della qualità della vita, che nella giurisprudenza di common law si accompagna alla logica “utilitaristica” della gestione dei costi, dove si possono annidare “più convenienti” forme di abbandono terapeutico che, per le modalità con cui vengono attuate, conducono poi il paziente più fragile, anche negli affetti e nelle possibilità economiche, a chiedere inevitabilmente l’interruzione immediata della propria esistenza. Non è un caso che, con intuitiva efficacia, Luciano Violante ha più volte parlato di eutanasia come “morte dei poveri”.

 

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