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Chi (e perché) ha incendiato il Golfo colpendo il petrolio saudita?

Indipendentemente dal tempo che l’Arabia Saudita impiegherà per riportare l’output petrolifero a livelli normali, indipendentemente dalla tipologia di armi usate (droni, missili, sciame di droni e missili), indipendentemente dall’autore e dalle conseguenze, c’è un solo elemento, centrale, che gli attacchi agli impianti di Abqaiq e Khurais si sono portati dietro: il petrolio saudita, dunque il petrolio mondiale, è vulnerabile.

L’effetto diretto di questa considerazione è stata la crisi del prezzo alla riapertura dei mercati oggi. Niente come il doppio raid di sabato — sul più grande impianto di raffinazione del mondo e sul secondo maggiore reservoir saudita — aveva prima d’ora tagliato così di colpo le produzioni; nemmeno l’inizio ufficiale della rivoluzione khoneinista del 1979, o la dichiarazione di guerra dell’Iraq di Saddam al Kuwait nel 1990. Processi che portarono a cambiamenti profondi nella regione. Dal mercato del greggio sono scomparsi tutte insiemi 5,7 milioni di barili, il 5 per cento delle forniture globali. “Drammatico” è l’aggettivo con cui Bloomberg spiega il picco dei future sul Brent, balzati di quasi 12 dollari al barile nei secondi dopo l’inizio delle negoziazioni lunedì e temporaneamente congelati nei mercati asiatici: “di gran lunga il più grande rialzo da quando sono stati lanciati nel 1988”, dice l’agenzia. I sauditi rassicurano (o almeno ci provano) che ristabiliranno l’operatività dei due siti — ora chiusi — in pochi giorni, ma per riportare le produzioni ai livelli precedenti serviranno settimane. Per questo hanno fatto sapere di aver aperto le riserve strategiche (disponibilità data anche dagli Usa): basteranno per onorare tutti i contratti? È la domanda che si fa il mercato e attorno a questa ruoterà l’intera giornata.

Sull’autore dell’azione c’è ancora mistero, basato su dichiarazioni passate ai media dai funzionari governativi senza però una ricostruzione ufficiale. Chiunque sia stato ha centrato un obbiettivo multiplo. Innanzitutto ha dimostrato una debolezza evidente da parte di Riad, considerata una potenza in Medio Oriente, che però si mostra incapace di difendere i propri asset strategici. L’Arabia Saudita ha uno scudo missilistico, ma evidentemente la difesa costruita coi Patriot americani è perforabile. Di più: tutto avviene in un momento nevralgico, in cui la Saudi Aramco, proprietaria dei due impianti, sta per mettersi sul mercato azionario globale secondo un piano studiato dall’erede al trono Mohammed bin Salman per differenziare l’economia dal petrolio e dunque l’idea che il mondo ha del suo regno. Chi ha colpito ha voluto squarciare il cuore di questa strategia di lunga gittata, che va sotto il nome Vision 2030, e ha voluto minare la leadership di bin Salman, il policy maker che ha portato Riad al centro di una politica più asseriva nella regione intralciato da nemici esterni e ostacoli interni.

Ma non solo, l’altro grande obiettivo dietro all’attacco è il piano di avvicinamento all’Iran pensato dal presidente americano Donald Trump. Che si sia trattato di un’azione diretta iraniana o di un’iniziativa di forze proxy collegate in Yemen o Iraq, cambia la sostanza delle responsabilità ma non quella del messaggio. Teheran passa come un Paese duale, dove a un governo pragmatico pronto a un nuovo approccio verso Washington si affianca uno stato nello stato fatto dagli oltranzisti — sostanzialmente vicini al mondo dei Pasdaran e dell’industria militare — che hanno nell’ideologizzazione anti-occidentale il loro faro e nel tenere il livello di tensione sul filo del conflitto a bassa intensità la loro strategia. Trump era pronto all’incontro col presidente Hassan Rouhani già a latere dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite della prossima settimana (con premessa clamorosa: Trump sarebbe stato pronto anche a togliere parte delle sanzioni per dare respiro a Teheran e ridare forza politica a Rouhani), ma qualcuno ha voluto incendiare il piano con cui il presidente Usa voleva incassare i guadagni della massima pressione dell’ultimo anno, vedere le carte dell’iraniano e costruire una qualche impalcatura per sostenere la sicurezza regionale.

È il secondo contatto del genere che salta nel giro di pochi giorni — domenica scorsa era toccato ai negoziato con i Talebani previsti a Camp David. Pur restando sui fatti, difficile pensare solo alle coincidenze. Perché come tra le linee dure saudite e tra gli oltranzisti iraniani è possibile che anche a Washington ci sia qualcuno che non sia troppo insoddisfatto di come sarebbero potute andare le cose. Tutto si tiene; come spiega su queste colonne Kristine Lee del Cnas in una intervista di Francesco Bechis, a Washington di falchi non c’era solo l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, ma ce ne sono altri — non solo al Congresso, anche nell’esecutivo e nei corpi extra governativi —pronti a chiedere a Trump il conto di ammorbidimenti su determinati dossier.

Sulle contingenze dell’attacco, adesso. Ieri sera Washington ha deciso di diffondere pubblicamente — con una inusuale rapidità legata con ogni probabilità al contesto appena descritto — alcune immagini satellitari dei luoghi colpiti. I “funzionari”, entità anonima che fa uscire sui media posizioni e interessi, sono convinti che ci sia un coinvolgimento diretto di Teheran. Considerata poco credibile l’azione degli Houthi, che lottano per lo Yemen con i sauditi da oltre quattro anni. O almeno si pensa a un attacco misto, anche riguardo ai metodi: uno sciame di droni, forse dieci, più alcuni missili da crociera. Ci sono almeno 17 punti centrati, più (pare) alcuni pezzi finiti fuori bersaglio è già raccolti come prove da esaminare (se ne occupano in forma congiunta sauditi e americani).

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In realtà i guerriglieri yemeniti disporrebbero della tecnologia — passata dai Pasdaran — ma gli Stati Uniti sulla base dei dati raccolti propendono per un’azione da nord, dall’Iraq (dove c’è un fronte di milizie controllate dagli oltranzisti iraniani che sono già attenzionate perché hanno ricevuto dei rinforzi iraniani), o proprio da qualche base (o barca) posizionata proprio in Iran. Almeno, così fanno sapere quei funzionari. Si attende la ricostruzione ufficiale, con tecnici e analisti al lavoro sul campo e da remoto — aggiornamenti continui ai vertici, riunioni di carattere politico in corso, la Situation Room della Casa Bianca in fermento con gli alti profili dell’amministrazione che si sono recati al centro strategico per briefing almeno una volta domenica pomeriggio (avvistato il vice presidente, Mike Pence, e il capo del Pentagono.


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