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Hong Kong, più posti di lavoro per sedare le proteste. Nuova strategia della Cina

Non solo polizia. Il governo cinese ha un’altra idea per silenziare le proteste che da mesi inondano le strade di Hong Kong: il portafoglio. Questa settimana a Shenzen, città al confine a poche miglia dal distretto autonomo, sono stati convocati i rappresentanti di più di cento fra le più grandi aziende di Stato cinesi attive a Hong Kong per partecipare a un briefing con le autorità del governo. A darne notizia è Reuters tramite la testimonianza diretta di due partecipanti. Fra i presenti all’incontro, scrive l’agenzia, anche colossi come la compagnia petrolifera Sinopec e China Merchants Groups, storica multinazionale cinese nel settore mercantile, nota alle cronache italiane per aver espresso interesse a investire in porti come Ravenna e Trieste nell’ambito della Belt and Road Initiative (Bri).

L’incontro è stato convocato dalla Sasac (State owned asset supervision and administration commission), potente organo del Partito comunista cinese preposto al controllo delle aziende partecipate e di Stato e presieduto da Hao Peng, già governatore del Qinghai, oggi membro del diciannovesimo Comitato centrale. Gli emissari di Pechino avrebbero chiesto ai presenti di aumentare gli investimenti in settori ad alto potenziale occupazionale come turismo e immobiliare. Obiettivo: creare posti di lavoro per placare il malcontento popolare e stabilizzare i mercati finanziari, dopo il downgrade di Fitch che a inizio settembre ha abbassato la valutazione del debito di Hong Kong da AA+ ad AA e tagliato l’outlook da “stabile” a “negativo”. “Le élites industriali a Hong Kong non stanno facendo abbastanza. La maggior parte di loro sembra non essere dalla nostra parte – ha confessato a Reuters un dirigente d’azienda che ha partecipato al briefing.

Non è la prima tirata d’orecchie del governo cinese alle aziende di Stato accusate di non dare il loro apporto per gettare acqua sul fuoco durante le proteste a Hong Kong. Già ad agosto l’agenzia di Stato cinese Xinhua aveva dato conto di un incontro fra rappresentanti di 500 aziende di Stato e dirigenti del governo con lo stesso obiettivo. La stessa governatrice Carrie Lam, di cui i manifestanti continuano a reclamare a gran voce le dimissioni nonostante abbia fatto un passo indietro sulla legge per l’estradizione, ha chiesto a più riprese a imprenditori e amministratori delegati delle grandi partecipate cinesi di investire nel distretto per rilanciare l’economia e placare le turbolenze finanziarie. Non è un caso che questo mercoledì Peng abbia incontrato Lam a margine di un forum sulla Bri a Hong Kong. In un post su Facebook martedì la governatrice aveva preannunciato un nuovo pacchetto di politiche per la casa.

Durante il briefing i funzionari di Pechino avrebbero chiesto agli industriali in possesso di azioni delle aziende di Hong Kong un controllo più serrato delle rispettive attività e un aumento della capacità decisionale all’interno dei loro consigli d’amministrazione. È una strategia che il governo cinese persegue dall’inizio della crisi e che chiama in causa tutte le aziende controllate dal governo. Benché siano formalmente a scopo di lucro, esse hanno infatti il dovere di svolgere un “servizio nazionale”, supportando le iniziative del partito come la Bri. Chi non si adegua rischia di incorrere in pesanti ripercussioni.

È il caso della Cathay Pacific Airways Ltd, cui Pechino ha chiesto la sospensione dei dipendenti che hanno mostrato supporto alle manifestazioni a Hong Kong. Il pressing regolatorio del governo sull’azienda ha costretto alle dimissioni l’ex Ceo Rupert Hogg e ha già portato il suo successore ad annunciare un passo indietro il prossimo novembre . Lo stesso pressing ha visto coinvolta la Mtr Corp, azienda che gestisce la metropolitana di Hong Kong, dopo che i media di stato cinesi hanno sollevato una polemica contro i suoi dirigenti per aver “facilitato” la violenza dei manifestanti.



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