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Trump, Biden e l’impeachment del presidente Usa. L’analisi di Del Pero

La “pistola fumante” c’è, dice Mario Del Pero, professore di International History alla prestigiosa SciencesPo di Parigi, in una conversazione con Formiche.net in cui spiega le dinamiche de “Gli Stati Uniti nel Mondo“, come si intitola il più noto dei suoi libri, edito in tre edizioni da Laterza. Si parla di impeachment negli Usa: “I Democratici pensano di avere in mano molto stavolta”, ci dice in un rapido scambio a commento della situazione e di un report sulla vicenda che ha redatto per l’Ispi.

La cronaca: ieri la Casa Bianca ha diffuso il riassunto – non la trascrizione esatta – della telefonata che sta alla base dell’avvio della procedura d’impeachment contro il presidente, Donald Trump, lanciata ufficialmente sempre ieri con 218 congressisti che la sostengono alla Camera (a controllo democratico). Basta quello che è stato reso pubblico della trascrizione della conversazione con il collega ucraino Volodymyr Zelensky per comprendere come mai l’agente dell’intelligence che monitorava (come da prassi) il dialogo tra leader ne abbia subito fatto denuncia, con il rapporto che è arrivato dritto all’ufficio del Director della National Intelligence, Joseph Maguire, che a sua volta l’ha trasmesso al dipartimento di Giustizia e alla Commissione Intelligence della Camera. 

I fatti: Zelensky chiede a Trump aiuti militari – esplicitamente: missili anti-tank Javelin come quelli ricevuti lo scorso anno, che sono fondamentali perché l’Ucraina sta combattendo una guerra contro i separatisti filorussi del Donbas. Ribelli aiutati dai carri armati passati da Mosca. Trump gli risponde positivamente, ma gli dice chiaro e tondo: però “mi faresti un favore?”. Tralasciando il tema del complotto che riguarda le mail di Hillary Clinton – che sarebbero in parte nascoste in un fantomatico server segreto in Ucraina a cui l’Fbi non avrebbe avuto accesso, secondo una leggenda non solo priva di prova, ma di senso – la parte del “favore” importante riguarda come noto la richiesta di indagare Joe Biden e suo figlio.

Quest’ultimo finito a sua volta in un’indagine per corruzione mentre era membro del consiglio di amministrazione di una società del gas ucraina controllata da un oligarca non proprio limpido. Il padre, secondo l’accusa dei Trumpers, sarebbe stato colpevole di aver fatto in modo che Kiev licenziasse il procuratore generale per affossare le indagini sulla società, e dunque aiutare il figlio. Biden ai tempi era vicepresidente dell’amministrazione Obama, e in effetti si era pubblicamente vantato di aver avuto un ruolo nel fare in modo che il governo ucraino si liberasse da quel ministro, Viktor Shokin, che in realtà era considerato il problema dietro alla campagna anti-corruzione lanciata dal paese, in quanto parte in causa.

Da notare che i media americani (per primo il Washington Post) spiegano che l’idea di infangare Biden – attualmente il più forte dei contender democratici in vista di USA2020 – con un’indagine che potesse trovare sponde nella vicenda ucraina è in piedi da tempo. C’è anche un uomo a capo del dossier, Rudy Giuliani, consigliere cyber di Trump e suo avvocato personale, l’ex sindaco di New York era già andato in Ucraina per prendere contatti, ma evidentemente non aveva trovato troppo terreno fertile e serviva l’input definitivo del presidente in una conversazione con l’omologo locale.

Questi contatti, sempre secondo i media statunitensi, erano piuttosto temuti da varie parti dell’amministrazione (soprattutto al dipartimento di Stato ) perché si credeva che in una conversazione diretta Trump avrebbe potuto avanzare richieste poco corrette sul tema anti-Biden. Per questo un incontro tra i due leader come quello avvenuto ieri, a latere dell’UNGA, è stato rimandato per settimane. Si temevano le conseguenze, che sono arrivate. Un presidente chiaramente non può usare il suo potere per chiedere a un leader straniero di aiutarlo nel combattere un avversario politico interno attraverso indagini giuridiche, tanto meno può usare come chiave una sorta di ricatto che riguarda argomenti di politica estera come la fornitura di armi.

Tornado alla pistola fumante, che è quindi il contorno di abuso di potere che si va configurando: perché in questo momento i Democratici hanno deciso di avviare la procedura di impeachment (non aperta nel caso del Russiagate), e perché anche l’anima più moderata – quella rappresentata dalla Speaker della Camera, Nancy Pelosi –  ora ha deciso l’all-in? “La trascrizione della telefonata, le dichiarazioni di Maguire contro il dipartimento di Giustizia (l’accusa del Dni di non aver proceduto con l’indagine dopo la segnalazione dell’intelligence, ndr), il coinvolgimento dello stesso William Barr (il segretario alla Giustizia, tirato in ballo da Trump che lo suggerisce a Zelensky come un interlocutore, insieme a Giuliani, con cui condividere i passaggi su Biden. Ndr), ci dicono che forse Pelosi sa di avere in mano molto stavolta”, spiega Del Pero.

“La telefonata di per sé, in un mondo normale, sarebbe fumante abbastanza. Poi ci sarà il whistleblower (l’agente che ha alzato la denuncia, ndr), poi l’ispettore generale dell’intelligence, poi Maguire e chissà chi e cos’altro salterà fuori. Insomma sembra davvero una slavina”, aggiunge il professore. Basterà? “Difficile a dirsi, perché il sostegno a Trump rimane fortissimo nella base; ma magari basta a contenere gli effetti negativi dell’impeachment con gli indecisi e ora anche con i critici. E magari fa andare definitivamente fuori giri Trump in campagna elettorale (che per lui rischia di diventare una campagna per difendersi)”.

Gli effetti negativi dell’impeachment, spiega Del Pero nel report Ispi, riguardano un dato finora emerso: “Tutti i sondaggi di cui disponiamo ci dicono che per il momento una maggioranza degli americani non lo considera una priorità e che tra gli elettori indipendenti e/o moderati, che furono decisivi nei tanti collegi vinti e stravinti da Trump e conquistati invece dai democratici al midterm scorso, sia anche piuttosto impopolare“. Tra l’altro, tutto arriva mentre Trump è ai massimi storici secondo i sondaggi settimanali di Gallup sull’approval. Ma, aggiunge separatamente il docente di SciencesPo, la decisione di Pelosi va letta come conseguenza delle pressioni della base e di una parte dei congressisti, “a questo punto non più contenibili pena dover gestire mille sfide dal lato più sinistra del partito durante le primarie per scegliere il candidato alle prossime presidenziali”, liti e divisioni con riverberi su un momento delicatissimo. In più, o meglio soprattuto, c’è la pistola fumante come detto.

Cambiamo punto visto: Biden. C’è qualcuno che sostiene che con la vicenda siano emerse magagne preoccupanti – sebbene senza reati – dietro al candidato. Cosa ci lascia questa storia? “Non sembra siano state commesse illegalità di sorta è vero, ma che il figlio del vicepresidente in carica sedesse, lautamente retribuito, nel consiglio d’amministrazione di un’azienda di un corrotto oligarca, ex ministro, nel mezzo della crisi post-2014 (l’anno delle rivolte di Maidan e dell’annessione della Crimea, ndr), dà la cifra della opacità e del senso d’impunità di una certa politica. Ed è una macchia pesante su Biden, che lo indebolisce ancor più nelle primarie, e non credo che i Dems si uniranno a difenderlo. È davvero troppo grossa, e anzi staranno già iniziando a dirgli di farsi da parte”.

(Foto: un momento dell’incontro tra Trump e Zelenzsky al Palazzo di Vetro, il 25 settembre. Via Ian Bremmer)

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