Il tema fondamentale che attraversa la politica europea contemporanea è quello dell’immigrazione. Seguendo Giambattista Vico, bisogna riconoscere che si tratta un ricorso storico piuttosto che di una vera e propria novità presente. Infatti, come Gianni De Michelis insegnava saggiamente, la politica è prima di tutto geopolitica. E il nostro continente, bagnato a sud dal Mediterraneo, è sempre stato e sempre sarà terra di confine, dove si consuma quel fenomeno stabile che Giacomo Marramao ha chiamato “passaggio all’Occidente”. L’originalità di oggi rispetto al passato risiede semmai nella virulenza con cui tale migrazione accade, un’intensità che dobbiamo essere in grado di pensare e gestire, cominciando proprio dalla nostra nazione, prima frontiera marittima e primo luogo di approdo per centinaia di migliaia di migranti africani. Senza dubbio si deve accettare, ma anche governare, l’ineluttabilità di questa vicenda umana, drammatica per noi e tragica per loro. Chi arriva, infatti, non inizia una vacanza, così come chi subisce i flussi migratori ha poco da guadagnare e gioire.
Per questo la questione dei migranti sottopone a così pesante prova l’Unione europea e i suoi Stati democratici, divisi tra rispettivi egoismi mal combinati con una retorica buonista e ipocrita che vorrebbe sigillare il fenomeno in una prosaica massima universalistica palingenetica: “Che bello! Saremo felici tutti insieme”.
In realtà, non è così: e, aggiungo, che non può essere così, per delle ragioni non legate alla cattiveria e all’egoismo di qualcuno, o, peggio ancora, per la propaganda delle destre populiste, ma perché il genere umano è fatto così, diviso in culture e in segmenti che ne rappresentano ineluttabilmente e distintamente la ricchezza, nonché unitariamente la potenziale e reciproca ostilità.
La storia cambia, d’altronde, ma gli esseri umani no, come educano bene gli storici antichi, Tacito ed Erodoto in primis. Non abbiamo davanti, insomma, qualcosa di scandaloso ma una situazione difficile sebbene purtroppo normale. I filosofi medievali, che di migrazioni sapevano qualcosa ed erano certamente in un contesto sociale più cristiano di noi, non hanno mai pensato che potessero coincidere tra loro l’idea di persona, universale e comune a tutti gli esseri umani, con quella di cristianità, propria solo dei battezzati; e tanto meno l’idea di genere umano, nella sua generalità, con quello di comunità e cittadinanza particolare. A tal pro si legga e rilegga quanto Tommaso d’Aquino spiega nel suo Commento alla Politica di Aristotele: ogni persona è uomo in quanto tale, ma non ogni persona umana può essere cittadino di uno stesso Stato. Tutto ciò è semplicemente impossibile.
Malgrado questa amara constatazione, non è negato da nessuno, figuriamoci dall’Aquinate, l’universalismo tipico delle società europee, e tanto meno vi è un invito a pensare che esistano razze determinate e specifiche incompatibili tra loro. Quest’ultima tesi è semmai un’elaborazione ottocentesca, confluita poi nel razzismo del XX secolo, come si può comprendere facilmente riprendendo i testi sociologici di Gustave Le Bon, ben riassunti ed interpretati da George Mosse: il razzismo appunto non rappresenta, e invero non è, un tratto tipico e portante della filosofia occidentale. Tale teoria, oltretutto, è scientificamente falsa e pericolosa. Ciò nonostante, la convivenza tra culture diverse su uno stesso territorio non è lo stesso compatibile con un’idea ordinata di Stato, con la possibilità di una buona vita, con l’essere comunità di un certo popolo determinato: condizioni che hanno bisogno sempre di reggersi su identità valoriali, religiose, culturali e linguistiche molto precise, accettate come valide e indiscutibili solo da un peculiare segmento di umanità.
Dunque, l’integrazione è impossibile? No, evidentemente, ma neanche tanto facile. Queste note a margine dimostrano piuttosto che non è possibile bruciare le tappe della storia, facendo dell’integrazione un mezzo artificioso e frettoloso per l’attuazione di una finta idea di democrazia egualitaria. Si deve ammettere, all’opposto, come è avvenuto con le invasioni barbariche, che è soltanto il tempo, il passare dei secoli e delle generazioni, a rendere possibile il mutare dei contorni identitari delle singole comunità. Ripeto: comunità vive, divenienti, ma persistenti nello spazio e soprattutto generate lentamente dalla natura nel tempo.
Che fare allora oggi? Come gestire questi flussi migratori inarrestabili?
Il primo punto è chiaro: è fondamentale non credere che il multiculturalismo sia scontato, e non cavalcare l’interculturalità come obiettivo politico di progresso, perché tale non è di per sé. Se lo sarà, lo vedremo dopodomani, non certo né oggi e né domani. Il secondo punto riguarda, invece, noi stessi: l’Occidente europeo. La caratteristica peculiare che ci contraddistingue internamente è il pluralismo comunitario. Lasciamo perdere per un momento gli Stati, che ne certificano giuridicamente la modernità, e concentriamoci sul modo locale e determinato di vivere insieme delle persone: nessun essere umano può esistere senza i propri affini e senza avere una propria terra sicura dove stare, delimitata da confini chiari e precisi. L’opposto è impossibile.
Ogni soggetto sociale, infatti, è differente dagli altri, ma unito in se stesso e alla propria terra, almeno fin quando una comunità esiste. L’asse di una convivenza è la famiglia e il suo baricentro sono i valori comuni, accettati e non messi in discussione all’interno. Questi due cardini non sono di natura politica, ma appartengono alla sfera etica delle tradizioni, religiose, sentimentali e culturali, dei cittadini, premesse che precedono le lotte di potere e le differenze ideologiche tra gli individui. Come ha spiegato bene Roger Scruton, la singola persona può affermare la propria differenza dagli altri soltanto dentro un gruppo di persone con cui condivide un’identità nazionale. Se manca questo principio, manca la condizione per il pluralismo democratico e nascono inevitabilmente le guerre civili. Ovviamente un marxista non ragiona in questo modo: magari pensa che dalla lotta e dalle contraddizioni tra classi emergano superamenti miglioramenti necessari nella società, magari favorite dal nuovo proletariato di importazione.
Marx, in effetti, vedeva nel conflitto lo strumento del progresso storico, tesi assai discutibile a dire il vero. Per un conservatore, poi, tale persuasione, sebbene tanto diffusa, è errata, nefanda e sbagliata, perché generatrice esclusivamente di caos e distruzione. La buona politica, spiegava opportunamente Luigi Sturzo, non deve creare mai disordine: deve muovere i suoi passi da quella determinazione del genere umano che è una particolare comunità, cercando di rafforzarla, difenderla, trasformarla in coscienza collettiva, per permettere poi il pacifico confronto di essa con culture e sovranità diverse. L’Europa deve imparare a recuperare questa visione filosofica tradizionale, che è anche religiosa, evitando di generare al proprio interno fratture e lacerazioni, magari alimentate da pragmatici interessi di circostanza, che concludono allo sfruttamento schiavistico, economico e umano, di intere civiltà alla ricerca spasmodica e disperata della propria salvezza.
In definitiva, ogni nazione del nostro continente dovrebbe ritrovare il proprio spirito sociale, recuperare il senso e la dignità della propria identità e della propria storia, trovando in esso la radice religiosa e culturale del proprio essere soggettivamente Europa. In tale varietà omogenea è nascosto infatti il senso vero dell’integrazione, fatto di conservazione e trasmissione di un’eredità nazionale insieme ad altri popoli, e non di una ibridazione o contrattualizzazione di ciò che definisce l’essenza di ciascuna nazione. Salvaguardare i tratti eterni della civiltà europea, rispettare il lungo percorso che ci ha portati fin qui, divisi in nazioni e uniti in un continente, è l’unico modo possibile per poter essere Europa e convivere con un mondo in movimento frenetico, evitando di vivere l’immigrazione da terra assoggettata, che vive il proprio declino ed è pronta all’eutanasia piuttosto di lottare per essere l’Occidente di sempre.
Il potere deve sempre seguire la realtà, evitando che la volontà di potenza individuale distrugga tutta l’umanità cominciando dalla propria. Anche perché ogni volta che una civiltà pensa di saperla più lunga della propria tradizione e della propria storia, volendola dominare, calpestare, ignorare o mutare con la volontà, è sicura di soccombere, prima o poi, sotto le leggi dure e crude della necessità.