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Perché la partita con l’Iran è in mano agli Usa. Parla Pedde

Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, ha concesso un’intervista alla trumpiana Fox News da New York, dove si trova per partecipare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite e ha detto che “se il governo degli Stati Uniti vuole dialogare, deve creare le condizioni necessarie”, ossia occorre ripristinare la fiducia tra i due Paesi e tutto “passa attraverso la fine delle sanzioni imposte alla nazione e al popolo iraniano”, una condizione che “cambierebbe ovviamente le cose”.

“Secondo me, così come noi non abbiamo forte capacità di porci nei confronti dell’Iran, con queste dichiarazioni Rouhani dimostra di non aver compreso come affrontare l’Occidente”, commenta Nicola Pedde, esperto delle dinamiche mediorientali e conoscitore profondo della Repubblica islamica. Perché? “Perché non è possibile andare a New York e pensare di sfruttare il palcoscenico dell’Onu, con tutti i riflettori internazionali puntati addosso, e spiegare al mondo come il mondo deve funzionare”.

Rouhani ha parlato a pochi giorni dall’attacco a due impianti petroliferi nevralgici in Arabia Saudita, un’azione che sarebbe stata opera indiretta dell’Iran con la quale tra le altre cose è momentaneamente saltato un potenziale incontro diretto tra l’iraniano e l’americano Donald Trump. “È stato un messaggio forte lanciato da Teheran, che dimostra le capacità di resilienza del paese e spiega che l’Iran ha sì intenzione di trattare, ma non arriverà mai in ginocchio al tavolo negoziale. Perché non può: non può lasciare passare la narrativa che la Repubblica islamica negozia perché sfinita, perdente. È evidente”, aggiunge Pedde.

Ci parla da Dubai, di rientro dall’Iran, dove ha seguito incontri nell’ambito delle attività del think tank che dirige, l’Igs (Institute for Global Studies). Ossia ha attraversato in questi giorni i due poli delle attuali dinamiche regionali. Qual è il quadro generale nella regione, dopo che è stata recentemente scombussolata da diverse azioni che ne hanno messo in evidenza la vulnerabilità della sicurezza generale? “Il quadro è critico, quello che è successo con le petroliere lungo lo Stretto di Hormuz nei mesi passati, o adesso al petrolio saudita, indica quanto sia sensibile il contesto regionale. Ma sostanzialmente si stanno vedendo dei movimenti verso una ricerca di stabilizzazione. Il problema è uno: nessuno si fida di nessuno”.

Secondo l’analista italiano, la partita è tutta tra Stati Uniti e Iran, “entrambi vogliono fortemente un accordo, i primi perché per Trump può essere l’unico obiettivo concretamente raggiungibile in politica estera prima delle elezioni del prossimo anno; gli iraniani perché iniziano a sentire il bisogno di far respirare l’economia”. L’export petrolifero è sceso sotto i 200mila barili al giorno, ossia ha scavallato la quota di sopravvivenza. Però, continua, il problema a Washington è che non c’è nessuno in grado di poter costruire la trama per creare un accordo-quadro così ampio; aspetto che invece, con il ministro degli Esteri, Javad Zarif, non mancherebbe a Teheran, dove però si fatica a inquadrare gli obiettivi.

“Anziché prendere posizioni come quella di Rouhani da New York, Teheran potrebbe cercare una triangolazione. E ci sarebbe un attore in grado di sopperire entrambi i vuoti, e magari, volesse, farsi da catalizzatore e facilitare la creazione di una specie di consorzio dialogante e multilaterale”. Di chi stiamo parlando? “Degli Emirati Arabi. I contatti tra Abu Dhabi e Teheran sono diventati piuttosto intensi, gli emiratini si sono sganciati dalla politica saudita e stanno giocando in modo più diretto”.

Pedde specifica: “Sostanzialmente dobbiamo aver chiaro che questa volontà di contatto non è frutto di un’inversione di rotta 360 gradi, ma un po’ come per la volontà negoziale generale è frutto della paura che le cose possano davvero precipitare. Non c’è una moto motivazionale, non c’è una convinzione ideologica, c’è una necessità pragmatica: la paura appunto, che porta alcuni attori come l’Iran e gli Emirati Arabi, ma anche Kuwait, Qatar, Oman, a interessarsi nella ridefinizione dei rapporti generali nella regione”.

Ma quanto può durare tutto questo? “Nessuno lo sa, tutti hanno perso la fiducia, non si fanno previsioni a lungo termine, tutto è molto instabile”.

In tutto questo l’Occidente che carte ha da giocarsi? “Il dato è che su questo processo non c’è un’impronta occidentale, e non è detto che sia un male. C’è una volontà di trattare le questioni regionali dall’interno della regione più che all’esterno, ma è evidente che il ruolo degli Stati Uniti c’è, ed è forte, perché dà la possibilità di stabilizzare l’Iran con un qualche genere di accordo”.

E l’Europa? Tra i firmatari dell’ormai definitivamente collassato Jcpoa, l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, ci sono anche i paesi europei, gli EU3 (o E3), che recentemente hanno preso anche posizione sulla vicenda degli attacchi al petrolio saudita: che ruolo stanno avendo? “Altro fatto incontrovertibile: l’Europa ha un ruolo marginale, sul dossier iraniano sta dimostrando la sua totale inconsistenza in materia di politica estera. Anzi, se proprio vogliamo analizzare la situazione politica a Teheran, il malcontento, a cui si agganciano le narrative degli attori politici interni, è proprio nei confronti dell’Ue, accusata di non essere in grado di tener fede all’accordo sebbene continui a dire che deve restare in piedi dopo il ritiro statunitense”.

“È attorno a questo anti-europeismo che le posizioni conservatrici classiche, che ultimamente erano passate su una linea più pragmatica, per le elezioni parlamentari di febbraio faranno campagna elettorale riportando il dibattito verso traiettorie un po’ più conservatrici. D’altronde, prendiamo la Francia, cosa sta facendo? Sta cercando di intestarsi in modo personale il dossier, spostandosi dallo schema dell’EU3 e da quello del 5+1, ma quando si scade così in basso sul bilaterale, la capacità di gestione rasenta lo zero”.


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