Il calendario dei lavori fissa a giovedì 3 ottobre nella commissione Affari costituzionali della Camera l’inizio della discussione sulla concessione della cittadinanza agli stranieri, anche se l’annunciato deposito di altri testi e la tempistica tutt’altro che azzeccata politicamente lasciano supporre dibattiti piuttosto lunghi. Di Ius soli, Ius culturae o di come vorranno chiamarlo si parla da qualche anno e il 13 ottobre 2015 la Camera approvò un testo che riuniva 25 proposte di legge diverse, testo poi non approvato dal Senato prima della fine della legislatura: Matteo Renzi voleva che il governo ponesse la fiducia, Paolo Gentiloni la negò perché Angelino Alfano e l’Ncd non volevano quella riforma e a Palazzo Madama il governo avrebbe rischiato.
A Montecitorio votarono contro Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia e si astenne il Movimento 5 stelle. Quel testo prevedeva uno Ius soli temperato e uno Ius culturae. Nel primo caso diventava cittadino italiano chi è nato sul territorio nazionale da genitori stranieri di cui almeno uno con il permesso di soggiorno e occorreva la dichiarazione di un genitore entro il compimento della maggiore età; lo Ius culturae, invece, prevedeva la cittadinanza per il minore nato in Italia o entrato prima del 12° anno che abbia frequentato un ciclo scolastico di almeno cinque anni o corsi di formazione professionale di tre o quattro anni. Anche in questo caso era prevista la richiesta da parte del genitore o dell’interessato entro due anni dalla maggiore età.
LA PROPOSTA BOLDRINI
Il testo presentato nel marzo 2018 da Laura Boldrini, ex presidente della Camera come deputata di Sel e da poco approdata al Partito democratico, va oltre quanto approvato nel 2015. Partendo dal principio che la cittadinanza dev’essere “il naturale coronamento della legittima aspirazione del richiedente, a seguito di un soggiorno legale di durata ragionevole sul territorio”, nel testo si stabilisce che lo Ius soli sia collegato al soggiorno di almeno un anno da parte di uno dei genitori “prescindendo dalla formale residenza” e che lo stesso principio dello Ius soli venga applicato “senza alcun requisito aggiuntivo” a chi nasce in Italia da un genitore a sua volta nato in Italia. Così facendo, si risolverebbe l’emarginazione di soggetti “ad esempio di etnia rom” di seconda o terza generazione: già questo riferimento rende la proposta Boldrini molto divisiva.
Riguardo ai minori, il testo consente la cittadinanza su istanza del genitore di chi abbia frequentato un corso di istruzione primaria o secondaria o di formazione professionale. Altre modalità di ottenimento della cittadinanza, con requisiti “che variano a seconda delle diverse situazioni giuridiche”, riguardano chi risiede in Italia da almeno cinque anni e gode del reddito previsto dalle norme sul permesso di soggiorno mentre per chi gode dell’asilo o della protezione sussidiaria si fa riferimento solo al soggiorno (si deduce che siano cinque anni) a prescindere da residenza e reddito. E’ compito dello Stato garantire l’offerta formativa per la conoscenza della lingua e della Costituzione: non sembra esserci l’obbligo di conoscenza, anche se è capitato che stranieri non siano stati in grado di pronunciare la formula del giuramento in italiano. L’istanza per ottenere la cittadinanza si considera accolta superati i 24 mesi dalla presentazione.
LA PROPOSTA POLVERINI
Renata Polverini (Forza Italia) votò a favore della legge del 2015 in dissenso dal suo partito. Ha ribadito questa posizione nel giugno 2018 con la proposta che rilancia l’allarme demografico del calo delle nascite e sottolinea l’aumento degli stranieri regolarmente residenti in Italia, passati dai 537mila del 1992 (anno della legge che si vuole modificare) ai circa 5 milioni attuali. La Polverini punta a uno Ius culturae più che a uno Ius soli e prevede tre diverse possibilità: la prima riguarda il minore straniero nato in Italia che può acquisire la cittadinanza se vi ha risieduto legalmente senza interruzioni “fino al compimento del corso della scuola primaria”. Occorre una dichiarazione che lo attesti, presentata da un genitore o dall’interessato una volta diventato maggiorenne. La seconda ipotesi mantiene quanto già previsto dalla legge in vigore, per cui lo straniero nato in Italia può chiedere la cittadinanza quando compie 18 anni, senza il requisito del ciclo scolastico. La terza possibilità, infine, è uno Ius culturae vero e proprio perché il cittadino straniero potrebbe diventare italiano superando un esame sulla cultura, la lingua italiana e i principi dell’ordinamento dopo una residenza di tre anni. Questa modalità è esclusa in caso di condanna per gravi reati o motivi riguardanti la sicurezza nazionale.
LE PERPLESSITÀ
Il presidente della commissione Affari costituzionali, Giuseppe Brescia (M5S), ha annunciato la presentazione di un testo del Movimento spiegando che una mediazione sullo Ius culturae è possibile: questo è tutto da vedere per le tensioni trasversali nella maggioranza e interne al M5s, visto che Brescia è della corrente di Roberto Fico e che Luigi Di Maio è molto più prudente. Probabilmente siamo alla vigilia di polemiche già viste e sentite. Commentando la legge del 2015, Ernesto Galli della Loggia scrisse sul Corriere della Sera del 24 settembre 2017 che, limitandosi a prevedere un ciclo scolastico, “la legge prescinde del tutto dal contesto culturale familiare o di gruppo in cui il futuro cittadino è cresciuto e tanto più da qualunque accertamento circa l’influenza che tale contesto può aver avuto su di lui”. Il punto dolente su cui si spaccherà di nuovo la società italiana fu descritto così: “E’ giocoforza ammettere che le preoccupazioni dell’opinione pubblica nascono in specie in relazione a una categoria particolare di immigrati: gli immigrati di cultura islamica” in considerazione del “fortissimo vincolo familiare” che è “sublimato da un altrettanto forte comandamento religioso”. Visto che si punta all’integrazione, andrebbe considerata soprattutto la difficoltà della cultura islamica ad accettare i principi di quella occidentale.
A queste obiezioni va aggiunta quella espressa due anni fa dall’ambasciatore Cristina Ravaglia in una lettera al Corriere della Sera dell’agosto 2017 e caduta nel vuoto. Fino a poco prima direttore generale per gli Italiani all’estero e le Politiche migratorie della Farnesina, l’ambasciatore ricordava che la legge sullo Ius sanguinis consente di ottenere la cittadinanza italiana per discendenza risalendo all’Unità d’Italia da parte di chi vuole solo godere di libertà di movimento nell’Unione europea e che di italiano “ha solo una remota goccia di sangue o forse un cognome”. Ipotizzando all’epoca l’approvazione definitiva della legge, l’ambasciatore Ravaglia scriveva che “con il prevedibile ampliamento della platea di coloro che acquisteranno la cittadinanza italiana iure soli, si impone una modifica in senso restrittivo delle norme vigenti sullo Ius sanguinis portando il diritto al riconoscimento della cittadinanza al massimo a due generazioni”. Altrimenti ci sarebbe un “effetto perverso” per il quale i bisnipoti dei nuovi cittadini tornati nel Paese di origine diventerebbero italiani senza avere né discendenza né cultura. Almeno sulla limitazione temporale dello Ius sanguinis un’intesa bipartisan non dovrebbe essere difficile.