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Il Kashmir, l’India e l’Italia. Intervista all’ambasciatore del Pakistan Riyaz

C’è una grave crisi politica e umanitaria che troppo spesso passa in sordina nel dibattito mediatico internazionale. È quella che da più di settant’anni si consuma nel Kashmir, la regione al confine fra Pakistan e India che da sempre è oggetto di reciproche e opposte rivendicazioni. L’escalation degli ultimi mesi, complice l’abrogazione da parte del presidente indiano Narendra Modi dell’articolo 370 della Costituzione che alla regione concedeva uno status speciale, è sotto gli occhi di tutti. Se ne parla poco, spiega in un’intervista concessa a Formiche.net  Nadeem Ryiaz, ambasciatore del Pakistan in Italia con una lunga e decorata carriera diplomatica alle spalle, forse perché i più non colgono la portata geopolitica che un conflitto in Kashmir può avere per l’Asia e per il mondo intero. È un campo minato che tutti, a prescindere da religioni e ideologie, hanno interesse a disinnescare. Italia compresa.

Ambasciatore, perché il Kashmir non riesce a trovare pace?

Il primo errore fu commesso nel 1947. Quando l’India britannica fu divisa in India e Pakistan il problema del Kashmir rimase irrisolto. La ripartizione seguì il criterio religioso. Le zone a prevalenza indù spettavano all’India e quelle a prevalenza musulmana al Pakistan. Il Marajah era hindu, la popolazione per gran parte musulmana. Il dossier è stato portato più volte dall’India di fronte all’Onu, che tramite una serie di risoluzioni ha determinato che agli abitanti del Kashmir deve essere concesso il diritto di esprimersi con un referendum. Questo plebiscito non ha mai avuto luogo, nonostante il Pakistan abbia espresso il suo favore.

Qual è secondo voi il vero problema che pone l’abrogazione dell’articolo 370?

Quell’articolo concedeva al Kashmir indiano uno status speciale. Un decreto del presidente Modi lo ha abrogato annullando lo status. Così oggi ogni cittadino indiano può comprare un appezzamento di terra in Kashmir. L’equilibrio demografico ed etnico sarà radicalmente cambiato. Se per il referendum si attenderanno altri due o tre anni nel frattempo il Kashmir sarà diventato un territorio colonizzato.

Il governo indiano ha annunciato di aver allentato la presenza nella regione. C’è spazio per il dialogo?

È solo parzialmente vero. Dallo scorso 5 agosto l’India ha inviato 180.000 truppe aggiuntive nel territorio occupato del Kashmir. Da quando il governo ha unilateralmente abrogato l’articolo 370 internet e la linea telefonica sono stati tagliati. I reportage dei pochi giornalisti che hanno accesso all’area parlano di carenza di cibo e medicine, migliaia di persone scese in strada e molti feriti.

C’è il rischio concreto di un conflitto armato?

Non credo che nessuno abbia interesse a un’escalation. Il nostro primo ministro Imran Khan ha detto chiaramente che non sarà di certo il Pakistan ad iniziare una guerra, ma anche che sarà pronto a rispondere ad un’aggressione dell’India. Il problema vero è che molto semplice iniziare una guerra ma è molto difficile prevedere quale direzione prenderà e come finirà.

La crescente militarizzazione del confine è sotto gli occhi di tutti.

Il Pakistan ha 160.000 uomini stabilmente schierati al confine con l’Afghanistan. Mentre noi siamo per il dialogo con gli Usa per cercare soluzioni durature capaci di garantire stabilità in quell’area, dal confine opposto, quello con l’India, provengono continue e crescenti sollecitazioni che distraggono e alimentano notevolmente la tensione.

Ci sono stati incidenti da entrambe le parti.

Il Pakistan si è limitato a rispondere alle provocazioni indiane. Quando a marzo abbiamo catturato un pilota indiano ero al ministero degli Esteri per un briefing. Mi è stato chiesto un parere sul suo rilascio e dissi che non ne vedevo il motivo. Il nostro primo ministro decise di riconsegnarlo all’India perché quell’uomo aveva fatto solo il suo dovere. Un segnale di apertura che a parti inverse non abbiamo ancora visto.

Il governo indiano accusa il Pakistan di infiltrare gruppi terroristici fra i manifestanti in Kashmir.

Noi abbiamo catturato una spia indiana e su quel caso stiamo conducendo una battaglia di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia che senz’altro vinceremo. Loro non hanno mai catturato una spia pakistana. Se ci fossimo infiltrati avrebbero preso qualcuno dei nostri. Gli indiani hanno più di 200.000 uomini schierati al confine, noi 180.000 ma non abbiamo una riserva, più del 90% del nostro esercito è schierato. Perché mai dovremmo volerne disperdere altri?

Come vede l’opinione pubblica pakistana un conflitto con l’India?

Non abbiamo alcun interesse a iniziare un conflitto armato. L’agenda politica dell’attuale governo è tutta costruita sullo sviluppo economico e sociale, sulla costruzione di scuole e case. Una guerra costringerebbe il governo a dissipare tutte le sue risorse e ad abbandonare le politiche sociali. Avrebbe effetti devastanti. Non dimentichiamo che entrambi i Paesi sono potenze nucleari. L’India sovrasta il Pakistan quanto a truppe e armi convenzionali. In termini di armi strategiche il Pakistan è molto superiore.

La soluzione passa inevitabilmente per l’Onu?

Il dossier del Kashmir è quello che da più tempo giace senza una soluzione sul tavolo dell’Onu. Le risoluzioni delle Nazioni Unite devono rimanere la bussola, ma l’intera comunità internazionale deve mostrare i muscoli e chiedere all’India di adeguarvisi.

Siamo di fronte a un conflitto religioso prima ancora che politico?

È stata l’India a inserire il fattore religioso nell’equazione. Narendra Modi crede nella teoria “L’India agli indù”. È il motto della Rss (Rashtriya Swayamsevak Sangh, ndr), l’organizzazione di estrema destra affiliata al suo partito. Un ragionamento estremamente pericoloso che va contro tutto ciò che hanno costruito padri fondatori dell’India come Patel, Ambedkar, Nehru. Loro hanno fondato lo Stato indiano sul secolarismo.

Quanto è cambiata la società indiana con Modi?

L’estremismo religioso ha preso piede. Cinque anni fa sarebbe stato difficile leggere sui giornali di una persona brutalmente assassinata perché aveva della carne di mucca in frigo. Quest’ondata di estremismo e di odio si riversa anche contro il Pakistan. Ogni volta che in India c’è un attacco terroristico il governo pakistano viene accusato come mandante.

Non si può dire che il fondamentalismo religioso sia un fenomeno estraneo al Pakistan.

Cinque anni fa il fondamentalismo era il problema numero uno in Pakistan. In questi anni abbiamo distrutto i santuari del terrorismo, abbiamo spinto al confine con l’Afghanistan i gruppi estremisti e molti li abbiamo sciolti, abbiamo interrotto i loro finanziamenti. Se le nostre forze armate sono fra le più addestrate al mondo c’è un motivo. Un po’ come i vostri Carabinieri con le Brigate rosse, anche loro si sono fatte le ossa a forza di combattere la piaga del terrorismo.

Sulla società pakistana invece il fondamentalismo religioso continua ad avere presa?

In ogni Paese ci sono sette e gruppi fondamentalisti, ne rimarranno sempre alcuni. Non c’è però oggi in Pakistan una grande organizzazione fondamentalista. Complice il nostro National action plan, che ha previsto due linee di intervento fondamentali. La messa al bando dei discorsi d’odio. E la possibilità di processare con corti speciali chiunque sia trovato a diffondere propaganda violenta. I partiti estremisti possono presentarsi alle urne e magari ottenere qualche seggio, ma alle ultime elezioni non ne hanno avuti più di venti.

Torniamo al Kashmir. Lei spiega che la comunità internazionale può e deve fare la differenza. Ma ogni Stato ha interessi divergenti nella regione, a cominciare dalla Cina.

L’Asia Meridionale è oggetto di contesa di molti Stati. Fra questi c’è la Cina, che ha apertamente supportato il Pakistan. Ovviamente non è un supporto disinteressato. Il governo cinese ha una disputa in corso con quello indiano per la regione di Jammu e Kashmir e ha chiarito che un affronto indiano in quest’area costituisce un’aggressione alla sovranità cinese.

Un accordo con gli Stati Uniti può mettere il Pakistan in una posizione negoziale molto forte. In cambio il governo americano potrebbe chiedere supporto nella soluzione del conflitto in Afghanistan.

Anche la stabilità in Afghanistan dipende dalla soluzione della crisi in Kashmir, tutta la regione ne risente. Noi abbiamo dato il nostro contributo per i dialoghi di pace. Abbiamo ospitato i talebani per due round negoziali a Murree. In entrambi i casi i negoziati sono stati scossi da due notizie, la morte del Mullah Omar e l’uccisione del Mullah Mansur. Il nostro potere negoziale rimane limitato. In Afghanistan abbiamo solo tre consolati a Jalalabad, Herat e Mazar-i-Sharif. L’India ne ha nove.

Durante la visita del vostro primo ministro a Washington il presidente Donald Trump si è proposto per facilitare una mediazione con il governo indiano. È uno sforzo che apprezzate?

C’è stata grande speculazione sui media internazionali a riguardo. Lo sforzo sarebbe stato encomiabile, se non fosse stato lo stesso governo indiano a smentire di volere una mediazione americana con un comunicato.

L’Italia può giocare un ruolo per facilitare una soluzione della crisi in Kashmir?

L’Italia vanta relazioni molto solide con il Pakistan, negli ultimi anni sono cresciute. Entrambi i Paesi sono parte del gruppo Ufc (United for consensus) per la riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Il governo italiano può dunque giocare un ruolo fondamentale nel richiamare l’attenzione della comunità internazionale chiedendo il rispetto delle risoluzioni Onu.

 

Foto: The Nation

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