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Crisi in Libia, per l’Italia è il momento di osare. Parla Mezran

Non ci sono molte ragioni per credere che la conferenza internazionale sulla Libia che si svolgerà a Berlino, nonostante la neutrale sede tedesca, possa segnare un cambio di passo nella stabilizzazione del Paese nordafricano. Così come è difficile pensare che, malgrado le buone intenzioni, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte possa tornare da New York con un concreto sostegno americano alla risoluzione della crisi.
A crederlo è Karim Mezran, esperto di Libia e senior fellow presso il Rafik Hariri Center for the Middle East dell’Atlantic Council, che in una conversazione con Formiche.net analizza le divisioni tra gli attori in campo (e nella stessa amministrazione Usa) per una soluzione del conflitto. Con un suggerimento alla diplomazia italiana: è il momento di osare.

Ci si avvicina a grandi passi alla conferenza internazionale di alto livello sulla Libia organizzata a Berlino. Può segnare uno spartiacque nella risoluzione della crisi?

Me lo auguro, ma non sono fiducioso che ciò accadrà. La ragione ha a che vedere col fatto che i principali attori con potere decisionale nel confitto in Libia sono gli stessi poteri regionali coinvolti nella crisi. Lo stallo potrebbe dunque perdurare anche se dovesse trovarsi un accordo che soddisfi tutti. E che, al momento, vedo ben lontano.

Che cosa ostacola un’intesa?

Al netto dei micro-interessi di chi non vuole che i negoziati progrediscano perché vuole difendere il suo piccolo pezzo di potere, al momento l’ostacolo più grosso deriva dalla posizione di Khalifa Haftar. Quest’ultimo ha più volte detto di non volere la Cirenaica che, tra l’altro, non rappresenta. Il suo obiettivo è quello di essere il ‘padre fondatore’ di una nuova Libia. E questo non potrà accadere mai, non solo per le ragioni già dette, ma soprattutto perché troppo sangue è stato sparso finora. E a Tripoli non accetteranno mai di sedersi allo stesso tavolo per parlare con chi ritengono responsabile di tante morti innocenti.

Formiche.net ha raccontato la possibilità che l’Italia possa fare asse con la Turchia per spostare il baricentro degli equilibri interni alle forze che siedono al tavolo dei negoziati. Potrebbe funzionare?

Potenzialmente sì, ma si tratta di un terreno molto scivoloso. Servirebbe avere una tale autorevolezza da respingere qualsiasi accusa collegata al fatto che un avvicinamento a Ankara possa coincidere con un sostegno ai Fratelli Musulmani e alla corrente islamista. Non credo Roma abbia al momento questa forza, ma l’idea va coltivata con tatto e arguzia, perché ha una sua ragione di essere.

Il fatto che questa conferenza si svolga in Germania, un Paese meno esposto di altri, potrebbe incidere su un avanzamento dei negoziati?

Sicuramente il fatto che l’incontro si tenga in Germania e non in Francia, nazione troppo coinvolta a sostegno di Haftar, è un fatto positivo. Ma basterà? Io ne dubito. Per fare passi in avanti la diplomazia non basta più. Serve che qualcosa cambi negli equilibri sul terreno o difficilmente se ne uscirà.

Come uscire da questa fase di stallo senza alimentare ulteriormente il conflitto?

Io credo che l’Italia possa, anche se tardivamente, segnare la differenza. Capisco le ragioni della nostra diplomazia, che ha finora avuto un approccio ineccepibile al dossier libico, sostenendo il lavoro super partes delle Nazioni Unite. Ma ciò ha retto fino aI raid nell’ambito dell’offensiva lanciata lo scorso 4 aprile dal generale Khalifa Haftar contro Tripoli. Questo, a mio avviso, avrebbe dovuto segnare un cambio di marcia nella nostra azione. Avremmo dovuto chiedere, nel nome del giusto rispetto dei diritti umani, che la comunità internazionale prendesse piena posizione invitando Haftar – che non rappresenta nessuno sul terreno, se non potenze straniere – a farsi da parte, anche facendo propria la constatazione che ha di fatto bloccato i negoziati per anni. Invece non c’è stata nessuna risoluzione e, naturalmente, nessun passo in avanti.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, a New York per un summit Onu, potrebbe chiedere agli Stati Uniti e a Donald Trump – che ne ha pubblicato fatto un endorsement – un approccio più strutturato nei confronti della stabilizzazione della Libia. La crede una ipotesi percorribile?

L’amministrazione americana è al momento divisa in due rispetto all’approccio da adottare con la crisi libica. C’è un’anima che fa capo al Dipartimento di Stato e al segretario Mike Pompeo, al Pentagono e al National Security Council che vede di buon occhio un impegno americano neutrale perché ci sia un cessate il fuoco, un disarmo e si arrivi a un accordo di pace. Ma c’è anche una corrente pro Haftar che ha una grossa influenza sulla Casa Bianca. I primi sono pertanto molto cauti, e ciò ha finora causato una semiparalisi. Ma le strutture sono al lavoro, quindi potrebbero esserci sviluppi positivi.

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