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La Libia? Peggio della Siria! Parola dei russi (che se ne intendono)

Ieri, l’ambasciatore russo alle Nazioni Unite è intervenuto su un dossier che per l’Italia è centrale e per la Russia un pezzo del grande puzzle internazionale su cui Mosca vuole incastrare i propri interessi: la Libia. Vassily Nebenzia, nel corso di un briefing con la stampa dal Palazzo di Vetro ha detto che risolvere la crisi libica gli sembra “forse più difficile” della Siria – dove i russi sono impantanati militarmente dal 2015, e nonostante quattro anni di sostegno sofisticato al sanguinoso regime Assad, in partnership farraginosa con l’Iran, ancora non sono riusciti a ridare il pese al rais; men che meno a sconfiggere lo Stato islamico, dossier a sé stante su cui la Russia non s’è mai realmente impegnata, lasciando il lavoro duro alla Coalizione a guida americana e concentrandosi sugli interessi allineati lungo la costa mediterranea siriana.

In quest’ottica la vicenda libica diventa parte di una strategia di Mosca che si allunga dalla Siria fino verso l’altro lato del Mediterraneo, un bacino nevralgico, cuore geopolitico d’Europa, recentemente tornato di alto valore strategico anche per nuove scoperte nel campo delle risorse naturali. Basta pensare che questa sorta di continuità di interessi la Russia l’ha dimostrata già a gennaio del 2017, quando invitò a bordo della portaerei “Ammiraglio Kuznetsov” il signore della guerra dell’Est libico, Khalifa Haftar, il capo-milizia della Cirenaica che ha riaperto una stagione di guerra civile in Libia, mettendo a ferro e fuoco Tripoli da quando – cinque mesi fa esatti – ha lanciato un’inconcludente quanto devastante campagna per rovesciare il governo che l’Onu ha insediato nella capitale.

La Kuznetsov è un paradigma perfetto per raccontare la Russia attuale: quella incastrata tra prove di forza a sfondo geopolitico con cui affermare con aggressività la propria dimensione di superpotenza globale, la crisi economica che la congela all’interno, la forza politica ancora esercitata a livello globale. Scesa da Murmask non senza inconvenienti tecnici – dovuti alle non perfette condizioni della costosa manutenzione – era arrivata davanti alle coste siriane per sostenere la spietata campagna di riconquista di Aleppo (durante la quale aveva perso due aerei, caduti accidentalmente dal ponte). Poi, al ritorno, impegnata in manovre militari nell’area di Creta, aveva fatto una sosta al largo di Tobruk, dove è asserragliato il parlamento libico eletto nel 2014 e tenuto sotto scacco militare da Haftar. Era un simbolo del ruolo che Mosca voleva giocare nella regione.

Quando l’autoproclamato Feldamaresciallo della Cirenaica fu accolto a bordo per siglare cabalistici documenti sul ponte della nave e avere una conversazione in video-conferenza col ministro della Difesa, la lettura analitica della photo-opportunity del libico in divisa tra i marinai russi diceva chiaramente che Mosca s’era messa a disposizione di Haftar e avrebbe spinto perché il ribelle anti-Onu si intestasse la Libia velocemente.

C’erano state indicazioni che mercenari controllati dal Cremlino, uomini del gruppo Wagner, avevano basi a Tobruk e a Bengasi, centro di comando haftariano e Mosca stentava a prendere una posizione a favore del governo Onu anche tenendo un profilo critico con l’Occidente (ricordando in ogni occasione che la Russia non era d’accordo con l’intervento che nel 2011 ha rovesciato Gheddafi). Adesso però sono passati oltre due anni, Haftar è incastrato, senza un esplicito sostegno internazionale e con le forze sul campo che sono in difficoltà – sebbene territorialmente controlli mezzo paese.

Ieri a tal proposito Nebenzia – che parla in modo calibrato dalla sede Onu in quanto rappresenta di un paese membro permanente del Consiglio di Sicurezza – ha aggiunto una nota interessante a questo proposito: “Soltanto un processo politico stabilizzerà la situazione nel paese nordafricano e una soluzione militare è inaccettabile”. Val la pena notare che attualmente l’unico attore che ha imbracciato le armi è proprio Haftar – fatta eccezione di Misurata, la città-stato della Tripolitania che ha un peso crescente all’interno del governo onusiano e che si occupa di rispondere con una difesa proattiva all’aggressione. E dunque la dichiarazione dell’ambasciatore russo diventa una critica nei confronti del Feldmaresciallo.

A fine aprile, era stato il principale delegato del Cremlino per la crisi, Lev Dengov, a spiegare già, e apertamente, la posizione scettica di Mosca nei confronti di Haftar: in un’intervista alla Bloomberg aveva detto che era “normale” che l’uomo forte dell’Est “si impantanasse” a Tripoli, avvisando già che l’unica soluzione è quella politica perché se Haftar fosse stato “un leader accettato e voluto da tutti i libici” avrebbe “già preso Tripoli e senza combattere”.

Sotto questo punto di vista diventa piuttosto interessante anche quanto detto dal presidente Vladimir Putin poco prima di incontrare l’omologo francese Emmanuel Macron dieci giorni fa: “Mi piacerebbe scoprire la posizione della Francia su questo tema”, ha detto Putin, ed è sembrato quasi un suggerimento sarcastico per ricordare al pubblico che Parigi è alquanto confusa sulla Libia, avendo una posizione ufficiale d’appoggio al programma Onu, e dunque la governo di Tripoli, ma con contatti continui, anche operativi, con le milizie di Haftar.

Secondo alcune opinioni raccolte in un pezzo pubblicato a fine agosto su Sputnik, un media che si occupa di diffondere la linea politica del Cremlino anche attraverso informazioni alterate, la Francia si sarebbe troppo esposta sulla Libia e avrebbe perso la reale capacità di giocare su entrambe le sponde. Al contrario, la Russia avrebbe mantenuto capacità di dialogo, e avrebbe in più come carta da giocare il rapporto con la Turchia. Ankara, in violazione all’embargo Onu, sta passando armi a Misurata – lo stesso stanno facendo Egitto ed Emirati Arabi con Haftar – ma Mosca ha già sperimentato sulla Siria la capacità di negoziazione e forza con i turchi (cosa che invece la Francia non ha).

Appena una settimana prima dell’incontro Putin-Macron, il ministero degli Esteri russo, attraverso la sua portavoce Maria Zakharova, ha alzato l’attenzione sul dossier – non a caso, è un tema caro ai francesi e dunque il gioco diplomatico diventa quasi scontato – e invitato le parti in conflitto in Libia a sedersi al tavolo dei negoziati, avviare un processo politico e porre fine ai combattimenti: “Per noi, non esiste alternativa a una soluzione politica della crisi libica”. E davanti all’incapacità di procedere delle Nazioni Unite, messe in crisi da condotte come quelle turche o emiratine, la forza negoziale russa potrebbe diventare utile. Dicono da Mosca.

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