Probabilmente quella di Giuseppe Conte passerà alla storia come una delle lune di miele più travagliate. Sono in molti, nei due schieramenti, a sparare sul quartiere generale. Alcuni, come Matteo Renzi, con il sorriso sulle labbra ed il proposito annunciato di non voler infierire su quella maggioranza che è stata anche il parto della sua strategia. Altri, come Alessandro Di Battista, che non nascondono i fumi della loro “ira funesta”. Quel grido contro il Pd ritenuto una grande pattumiera in cui si concentrano tutti i vizi italiani, va ben oltre i limiti del dissenso. È puro veleno.
Avranno conseguenze? Per la verità i primi segnali si sono già avvertiti. Nel voto alla Camera dei deputati, che ha respinto le proposte avanzate dalla magistratura contro il deputato forzista Diego Sozzani, reo, secondo l’accusa, di aver ricevuto un finanziamento illecito, per la campagna elettorale, di 10mila euro. In una situazione di relativa normalità, solo un piccolo incidente di percorso. In una fase concitata come questa, invece, un masso, più che un sasso, buttato nello stagno. Destinato a far tracimarne le acque limacciose.
È stato soprattutto Di Battista a cogliere al volo l’occasione, accusando il Partito Unico, “Lega – Forza Italia – Pd”, di aver alimentato la bramosia dei franchi tiratori. Pur se, stando alle voci, qualche manina nascosta aveva operato anche nelle fila del Movimento. Quindi una richiesta perentoria destinata a scoprire il fianco di Luigi Di Maio, sempre più amico-nemico: abolizione del voto segreto ed immediata candelarizzazione del voto sulla riduzione dei parlamentari. Tempo massimo concesso: i primi di ottobre.
A Luigi Di Maio è toccato pertanto l’ingrato compito di “coprire” il proprio rivale: “Per il MS5 – mandano a dire i responsabili vicini al capo politico – esiste libertà di pensiero e di opinione”. Come hanno dimostrato precedenti casi di espulsione, a partire da Federico Pizzarotti. La verità è che la struttura oligarchica del Movimento, è molto simile a quella del vecchio Pcus. I grandi dirigenti hanno diritto di parola. Ma la truppa è come la sussistenza. Può usare lo smartphone per votare sulla piattaforma Rousseau, ma guai a pronunciarsi sulle grandi questioni. Il diritto di cambiare idea – vedi i post di Beppe Grillo che hanno spianata la strada al Conte bis – è un privilegio riservato agli “elevati”.
Di Maio è stato, altresì, costretto a trasformare in un ultimatum il monito di Di Battista. Poco più di 3 settimane, a partire da oggi, per approvare definitivamente la riforma costituzionale relativa alla riduzione dei parlamentari. “L’ora delle decisioni irrevocabili” – vecchia mania dei politici italiani – è fissata al massimo per il 15 ottobre. Il proclama non è stato enunciato dal balcone di Palazzo di Venezia, ma l’atmosfera di guerra, seppure solo parlamentare, c’è tutta.
Caso più che spinoso quello del taglio dei parlamentari. Cavallo di battaglia dei 5 Stelle, era stato uno dei piatti forti della vecchia maggioranza, anche se la Lega si era fatta, più che altro, trascinare. Diametralmente opposta la posizione del Pd. Mesi e mesi di discussione in Parlamento. Decine di emendamenti: tutti respinti. Ed un chiodo fisso: pensare ad una riduzione del numero dei parlamentari andava anche bene. Ma nel quadro di una riforma più complessiva, che non desse solo corpo alle pulsioni anti- casta. Nulla da fare. Alla maggioranza gialloverde interessava solo il colpo di maglio, per punire coloro ch’erano considerati i principali protagonisti dell’attuale disastro.
Nelle lunghe (si fa per dire) discussioni che hanno accompagnato la nascita del nuovo governo, presieduto dall’inossidabile Giuseppe Conte, le posizioni non erano cambiate. Si trattava solo di trovare una formula di compromesso, che salvasse capre e cavoli. Fu individuata nel concetto di “contestualità”. Taglio, ma anche alcune riforme, a partire da quella elettorale, ritenuta indispensabile. Il minimo sindacale, se si considera che, comunque, si dovrà procedere ad una riforma dei Regolamenti parlamentari: possibile solo con il voto a maggioranza assoluta dei componenti le due Camere di appartenenza.
Ora Di Maio, per togliersi la spina nel fianco, rappresentata dalle critiche astiose di Alessandro Di Battista, vorrebbe rimettere indietro gli orologi. Far finta che il programma di governo, appena sottoscritto, con tutte le sue alchimie, frutto delle necessarie mediazioni, non abbia valore. Ed ecco, allora, l’ultimatum. O meglio la richiesta di capitolazione a danno del suo alleato. Per Nicola Zingaretti sarebbe un onere difficilmente sopportabile. Per un leader, come Matteo Renzi, che dichiara di non voler morire “grillino”, la santificazione della sua ultima scelta, sotto l’egida di “Italia Viva”.
Sarà interessante vedere come andrà a finire. In questa complicata partita qualcuno, alla fine, rischia di rompersi le ossa del collo. Quando ancora quella ben più impegnativa – la manovra che porterà al varo della “legge di stabilità” – non è iniziata. Non siamo nemmeno nella fase del pre-riscaldamento. Ma i tifosi già affollano le rispettive curve. Slogan e propositi spenderecci si susseguono a ritmo incalzante. Ma c’è già chi tenta di anticipare il risultato. Nell’attesa del fischio iniziale, mancano per ora 16 miliardi per far fronte alle richieste dei vari ministri.