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I due Matteo, “condannati” al mutuo soccorso

Io non condivido affatto la definizione di “scissione” che viene data all’iniziativa di Matteo Renzi, per il semplice fatto che ogni richiamo ad eventi novecenteschi (Livorno 1921, Palazzo Barberini 1947) non serve per cogliere quanto accade oggi, cioè nel tempo della leadership “assoluta” e del dominio dei social network sulla vita politica (via Instagram puoi raccontare una persona, non un partito).
Siamo quindi di fronte ad un evento naturale e (per molti versi) ritardato rispetto al suo momento più giusto, cioè la tarda primavera del 2014, subito dopo l’ormai mitico (e archiviato) 41%. È però interessante analizzare l’accaduto e provare a trarre qualche conseguenza. Ecco allora farsi avanti una prima evidenza, destinata a condizionare non poco il prossimo futuro.

Chi è infatti il più solido ed immediato beneficiario dell’iniziativa (sacrosanta ed ineluttabile dal suo punto di vista) di Matteo Renzi se non Matteo Salvini, cioè il suo avversario numero uno? Le cose stanno proprio così e stanno così nell’interesse reciproco, perché, come è noto, non si fa politica a nessun livello senza individuare (ed all’occorrenza sostenere) un nemico ben preciso.

Per capirci meglio facciamo un passo indietro, tornando a luglio di quest’anno (sembra passata una vita, ma sono solo 45 giorni). A luglio c’è Matteo (S) al ministero dell’Interno, nel pieno dei suoi poteri governativi. È però un leader politico sotto pressione da tutti i punti di vista, con un alleato di governo che ormai lo combatte a viso aperto, un contesto europeo che lo detesta, una discutibile relazione privilegiata con la Russia che genera più guai che opportunità (vedi alla voce Savoini), una manovra economica in arrivo certamente lontana dai suoi desideri e un partito in agitazione per un progetto di autonomie regionali finito sul binario morto. Insomma è in una condizione certamente destinata a peggiorare, pur essendo lui stato il protagonista di una formidabile performance elettorale negli ultimi tre anni.

Sempre a luglio c’è Matteo (R) senatore semplice, costretto dentro un partito che non lo ama e che lui detesta, messo ai margini di tutte le decisioni che contano (candidature locali e spazi di potere amministrativo) e con l’incubo del ritorno al Pd di Bersani e D’Alema, cioè i suoi nemici storici che tanti dispiaceri gli hanno dato (vedi alla voce referendum 2016).

Ecco allora sbucare il “Cigno Nero” di una bislacca crisi di governo che palesemente sfugge di mano a Salvini ma che Renzi interpreta in modo cinico e astuto, diventando il “king maker” di un Conte bis che il Capitano cerca fino all’ultimo di scongiurare (giungendo persino ad offrire a Di Maio la guida del governo).
Vince dunque Renzi il match, portando l’altro all’opposizione con apparente gran sfoggio di sofferenza.

La realtà è però un poco più complessa, perché Salvini ha più chances di uscire dall’angolo politico in cui si è cacciato (da solo) trascorrendo un periodo all’opposizione piuttosto che insistendo nel governare. È proprio qui sta il punto centrale del ragionamento.

La differenza tra la situazione di fine luglio e quella attuale è abissale ed è possibile coglierla appieno solo dopo la novità delle ultime ore, cioè la decisione di Renzi di lasciare il Pd per dare vita ad una formazione politica autonoma.

Infatti adesso ci troviamo con Matteo (R) al tavolo della maggioranza di governo con ruolo da protagonista, potenzialmente in grado di decretare la fine del Conte bis in qualsiasi momento senza passare dall’assemblea del Pd (dove non ha più la maggioranza).
E ci troviamo con Matteo (S) all’opposizione (ma comunque in buona salute elettorale) di un governo che già è più debole di quando è nato, perché la coalizione che lo sostiene è già diversa (con buona pace del M5S, non in grado di toccare palla), più frammentata e (quindi) certamente più litigiosa.

Eccoli qui dunque Matteo Renzi e Matteo Salvini. Avversari irriducibili e, loro malgrado, destinati ad aiutarsi l’un con l’altro.

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