L’esito di un’elezione molto lontana da noi come quella per le presidenziali in Afghanistan, eppure importante per tanti equilibri geopolitici, dipende da una grande quantità di fattori: partecipazione al voto; attentati per ridurre l’affluenza e terrorizzare la popolazione; stanchezza di una parte dei cittadini per 18 anni di guerra e nello stesso tempo voglia di modernità delle giovani generazioni; accuse e timori di brogli con un sottofondo di corruzione che in Afghanistan è un classico; la guerra al governo di Kabul da parte dei talebani che non disdegnano di collaborare con i jihadisti, favorendo la crescita di al Qaeda e dell’Isis in quell’area.
Solo tra alcune settimane si conosceranno i risultati dei due principali candidati, il presidente uscente, Ashraf Ghani, e il capo del governo, Abdullah Abdullah. Con 5 morti e 37 feriti come bilancio provvisorio del giorno delle elezioni, il ministro della Difesa, Asadullah Khaldi, che dichiara che “ci sono stati meno attacchi da parte del nemico rispetto alle precedenti elezioni” conferma un’instabilità destinata quasi certamente a durare a prescindere da chi vincerà. Le trattative degli Stati Uniti con i talebani, interrotte da Donald Trump per l’evidente inaffidabilità dell’interlocutore che continuava a fare attentati come se piovesse, difficilmente potranno riprendere anche se il presidente americano vorrebbe tanto ottenere un risultato concreto prima delle sue presidenziali del prossimo anno.
Il timore dunque è che cambierà molto poco perché i talebani vogliono riprendere il controllo dello Stato al posto del governo legittimamente eletto e ripristinare regole molto restrittive che i giovani del dopo 11 settembre rifiutano. La tecnologia da anni ha consentito anche agli afghani di conoscere che cosa succede nel resto del mondo, eppure non sembra bastare a consolidare istituzioni fragilissime. Come si è scritto da più parti e da anni, questo brodo di coltura favorisce le adesioni ad al Qaeda e all’Iskp, l’Isis della provincia del Khorasan, soprattutto da parte di chi vive nelle zone più sperdute e tagliate fuori da ogni modernità.
L’Afghanistan non è uno Stato come gli altri: è un insieme di tribù, di signori della guerra, di materie prime da sfruttare, di medioevo e di modernità, di terrorismo e di democrazia. La Nato da quasi 5 anni si limita ad addestrare le forze afghane senza più sostenerle nel combattimento, anche se è evidente che solo le poche forze speciali afghane sono in grado di contrastare il nemico mentre l’incapacità e la corruzione di polizia ed esercito rendono vani molti sforzi. Nel breve termine non si vedono alternative allo stallo anche se l’anno prossimo, con la campagna elettorale americana nel vivo, Trump potrebbe decidere la mossa del cavallo pur di presentarsi agli elettori con la promessa del ritiro mantenuta. Sempre che i vertici militari, l’intelligence e gli alleati siano d’accordo su una mossa radicale senza paracadute.