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Perché la catastrofe climatica è prima di tutto politica

Il rapporto del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici – Ipcc – conferma in larga misura, sulla base dei dati e delle osservazioni sugli effetti dell’aumento della temperatura media del pianeta, gli scenari che erano stati delineati già 30 anni fa a conclusione della prima sessione di Ipcca Sundsvall in Svezia, e di cui siamo testimoni: eventi climatici estremi sempre più frequenti, deforestazione dei “polmoni” del pianeta, scioglimento dei ghiacciai artici e del permafrost, riscaldamento e acidificazione degli oceani. A Sundsvall, come per i successivi 20 anni, ho guidato la delegazione italiana alle riunioni di Ipcc. Sono dunque testimone diretto di gran parte del percorso del Panel scientifico istituito nel 1988 dalle Nazioni Unite sia per monitorare e cercare di comprendere le cause dei cambiamenti climatici, sia per indicare le soluzioni.

Ed è stato un percorso difficile, contrastato soprattutto all’inizio da una parte del mondo scientifico che criticava la relazione tra emissioni di CO2 e aumento della temperatura, dalla Cina e dai paesi in via di sviluppo che hanno percepito per lungo tempo l’allarme sui cambiamenti climatici come vincolo per la loro crescita economica, dalle grandi imprese petrolifere rappresentate dai paesi del Golfo – Arabia Saudita in testa – e spesso dagli Usa. E, per paradosso, il lavoro di Ipcc non è stato facilitato dai suoi sostenitori che, evocando cambiamenti drastici e non realistici nelle politiche energetiche e agricole globali, hanno offerto argomenti agli scettici e alimentato la rottura nella comunità internazionale nel momento in cui sarebbe stato necessario individuare impegni comuni per la definizione di politiche e standard globali nell’energia e nell’agricoltura.

Voglio ricordare il doppio errore dell’Unione Europea che alla Conferenza sul clima dell’Aja nel 2000 provocò la rottura con gli Usa, anticamera della loro uscita dal Protocollo di Kyoto, mentre nel 2009 fu la causa principale del fallimento della Conferenza di Copenaghen riuscendo a coalizzare Usa, Cina, India e Brasile contro le posizioni europee. L’accordo di Parigi del 2015 aveva apparentemente “ricucito” la solidarietà internazionale sui cambiamenti climatici. Ma era evidente che l’adesione di Obama senza l’assenso del Senato USA era una premessa per l’uscita dall’accordo, come puntualmente è avvenuto con Trump.

Dopo 30 anni molte cose sono cambiate, in meglio ma anche in peggio. In meglio perché Ipcc ha migliorato la modellistica e le metodologie di analisi e previsione, con la partecipazione sempre più larga e qualificata di Università e Centri di Ricerca di tutto il mondo, con un ruolo crescente di Cina e India. Si è molto ridotto lo scetticismo attorno al lavoro di Ipcc, e la recente lettera pubblicata da The Indipendent dal titolo “Non c’è emergenza climatica” è stata sottoscritta più da dirigenti di aziende petrolifere e politici che da scienziati.

Le agenzie governative degli Usa continuano a documentare e “certificare” gli effetti dell’aumento della concentrazione di CO2 sulla temperatura e sui cambiamenti climatici, nonostante le posizioni negazioniste o scettiche dell’Amministrazione Trump. Dal 1990 l’uso dell’energia rinnovabile è aumentato 25 volte di più, anche se per il momento copre solo il 6% dei consumi globali. Gli investimenti sul carbone sono sempre più a rischio per le compagnie energetiche, mentre le assicurazioni e le “royalty-holding companies” stanno riducendo l’esposizione sul carbone. Il sole e il vento stanno diventando più economici degli impianti di produzione di energia con il carbone.
La Cina ha assunto la leadership mondiale nello sviluppo delle tecnologie e dei sistemi a bassa “intensità di carbonio” con piani e programmi di lungo periodo avviati negli ultimi 10 anni, dissociando in modo significativo la crescita economica dalle emissioni di carbonio. L’India ha iniziato a muoversi nella stessa direzione.

Unione Europea e Cina stanno costruendo pezzi di una “piattaforma” scientifica e tecnologica per la “decarbonizzazione” che potrebbe avere un effetto trainante sull’economia globale, nonostante molte incertezze, legate soprattutto alle pressioni Usa sulla politica energetica europea. Significativi e promettenti progressi sono stati raggiunti nel catturare la CO2 dall’aria e riciclarla come combustibile a emissione zero. L’Università di Cambridge ha istituito il “Centre for climate repair” (Centro per la riparazione del clima) per investigare “sui modi in cui riparare i danni climatici” includendo “il ricongelamento dei Poli della Terra e la rimozione della CO2 dall’atmosfera”. L’Università di Harvard è coinvolta in un progetto (ScoPex) che vede tra i suoi sostenitori anche Bill Gates. Il progetto consiste nel raffreddare il pianeta attraverso il rilascio di piccole parti di carbonato di calcio (aerosol) nell’atmosfera; l’aerosol in teoria dovrebbe aumentare l’albedo (coefficiente di riflessione di una superficie nei riguardi di radiazioni ondulatorie o corpuscolari, es. raggi rossi, raggi alfa) del pianeta, aumentando così la quantità di luce riflessa dalla Terra allo spazio.

In peggio perché tra il 1990 e il 2019 le emissioni globali di CO2 sono aumentate di circa il 70%, mentre i consumi di combustibili fossili sono cresciuti del 60%. La concentrazione in atmosfera di CO2 ha superato abbondantemente la soglia critica delle 400 parti per milione (412): i paleoclimatologi hanno rilevato che una concentrazione simile era stata rilevata più di 2 milioni di anni fa durante il Pliocene, quando gli oceani erano 25 metri più alti di oggi e gli alberi crescevano al Polo sud.

La temperatura media del pianeta è cresciuta di circa un grado, il doppio rispetto ai primi 90 anni del 1900. Secondo l’Agenzia Usa per l’Atmosfera e gli Oceani (Nooa), questi dati segnalano un trend di crescita della temperatura media del pianeta tra 3° e 4°C entro la fine del secolo. Da notare che il rapporto “Trajectories of the Earth System in the Anthropocene”, pubblicato nell’agosto 2018 dalla prestigiosa National Academy of Sciences degli Usa, sostiene che già l’aumento di “soli” 2°C potrebbe essere “la scintilla di un effetto domino incontenibile”, con modificazioni dei regimi climatici e l’intensificazione di eventi estremi che mettono a rischio in molte regioni del pianeta da un lato la struttura e la stabilità dei sistemi di approvvigionamento idrico, agricolo ed energetico e dall’altro la sicurezza delle zone costiere soprattutto nelle zone più povere o di recente sviluppo.

Nel frattempo, il degrado dell’ecosistema marino e terrestre, e la deforestazione riducono la capacità di assorbire le emissioni di CO2, e dunque aumentano i fattori di rischio per il clima. Ogni anno 7 milioni di foreste sono distrutte, per lasciare posto all’agricoltura intensiva e l’allevamento di bestiame nei Paesi in via di sviluppo.
Negli ultimi 30 anni Brasile, Indonesia, Nigeria, sono stati i Paesi che hanno subito la più grande perdita netta della foresta. L’Amazzonia ha già perso il 17% della sua foresta, si prevede che un 20-25% di deforestazione potrebbe innescare il punto di non ritorno, con effetti catastrofici sul ciclo del carbonio e sul ciclo dell’acqua.
Le zone umide del pianeta (paludi, torbiere, foci dei fiumi), che sono il più grande deposito di CO2 naturale a lungo termine, sono state ridotte di oltre il 60% per effetto di una folle politica di prosciugamento dei suoli. Il cambiamento climatico accelera e aumenta lo scongelamento del permafrost nei suoli della Regione Artica. Il permafrost contiene il doppio del carbonio dell’atmosfera, quasi 1600 miliardi di tonnellate, ed il suo scioglimento aumenta la concentrazione in atmosfera di CO2 in modo non prevedibile, con effetti ancora sconosciuti sull’aumento della temperatura del pianeta.

La Nasa ha stimato che le emissioni di carbonio a causa degli incendi più frequenti e gravi che stanno colpendo le foreste boreali e la tundra, sono in massima parte connesse alla combustione del permafrost. Il riscaldamento delle acque degli oceani provoca lo scioglimento dei ghiacci nella Regione Artica e nell’Antartide, e questo comporta una riduzione sia della capacità degli oceani di assorbire CO2 dall’atmosfera sia dell’effetto “albedo” dei ghiacciai che restituisce il calore solare allo spazio.

Una catastrofe politica. I dati certificano che le misure fin ad oggi adottate a livello internazionale (Protocollo di Kyoto, Accordo di Parigi) non sono sufficienti e adeguate, soprattutto perché incidono marginalmente sulle politiche energetiche, agricole e per l’uso del suolo. E mettono inoltre a nudo la contraddizione tra le dichiarazioni solenni e “ispirate” dei leaders negli ultimi 30 anni e le politiche industriali e agricole dei paesi da loro governati : non è un giudizio morale sui leaders ma la presa d’atto della divergenza o “schizofrenia” tra gli accordi e i programmi politici sui cambiamenti climatici e la “real life” dell’economia e della politica.

Due esempi per tutti : l’aumento della deforestazione e quello del consumo dei combustibili fossili. Dopo 30 anni di solenni dichiarazioni per la protezione delle foreste e sostenere misure alternative per la crescita dell’economia dei paesi che dipendono dalle foreste, non è stato preso alcun impegno internazionale e le molte iniziative – compresa quella della World Bank – hanno avuto effetti marginali e dimostrativi. In questo quadro si può leggere la crescita della deforestazione in Amazzonia.
Per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi, il consumo globale dei combustibili fossili dovrebbe scendere sotto il 50%. Invece le previsioni più aggiornate stimano che nel 2040 i combustibili fossili non andranno sotto il 75%, con le prevedibili conseguenze sull’aumento delle emissioni.

Per questo serve un radicale cambio di rotta: è necessario un radicale cambio di rotta, interrompere i sussidi per i combustibili fossili e l’agricoltura ad alta emissione, spostandosi verso l’energia rinnovabile, veicoli elettrici e pratiche intelligenti per il clima. Ciò significa far pagare il carbone a un prezzo che rifletta la realtà del costo di emissione, del rischio climatico e del rischio per la salute.” (Luis Alfonso de Alba, inviato speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per il Climate Action Summit 2019).”

Questa è la giusta direzione, ma è difficile aspettarsi concreti risultati dal Summit sul clima a New York. L’era delle conferenze “liturgiche” sul clima con il vincolo delle decisioni all’unanimità deve finire. L’emergenza richiede un differente format di negoziazione, per “forzare” i leader delle maggiori economie del pianeta (G20) ad accordarsi sulle modalità di attuazione delle misure necessarie per contrastare il cambiamento climatico :

✔ Carbon tax globale, per accrescere la competitività delle energie rinnovabili;
✔ Interconnessione globale delle reti elettriche alimentate dalle fonti rinnovabili;
✔ Riduzione progressiva del carbone e dell’olio, e loro sostituzione con le energie rinnovabili e il gas naturale;
✔ Standards internazionali per le produzioni agricole, la gestione dei suoli e la ricostruzione delle zone umide, al fine di incrementare l’assorbimento naturale del carbonio atmosferico;
✔ Standards internazionali per la protezione delle foreste e la riforestazione;
✔ Misure compensative per sostenere la crescita economica dei paesi in via di sviluppo che dipendono in larga misura dall’agricoltura e dallo sfruttamento delle foreste;
✔ Piena attuazione dell’impegno sottoscritto nel 2010 per finanziare con 100 miliardi di dollari il Green Climate Fund;
✔ Incentivi fiscali e facilitazioni nel commercio internazionale per le imprese che danno attuazione a queste misure con azioni volontarie.

Queste misure sono tutte “tecnicamente” possibili, ma richiedono un negoziato paziente per comporre le diversità dei bisogni e delle economie, sostenuto da una visione di lungo periodo che vada oltre le scadenze elettorali o i cambi di regime. Non è un percorso facile, ma se la comunità internazionale riconosce che il cambiamento climatico è un’emergenza globale, sono necessarie misure urgenti e vincolanti. E non ci saranno muri capaci di difendere i singoli paesi dagli effetti dei cambiamenti climatici globali.


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