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Così le proteste a Hong Kong spingono monete digitali e crittografia

Nelle proteste che dilagano e non accennano ad arrestarsi a Hong Kong, l’elemento tecnologico gioca da entrambi i lati un ruolo decisivo. Se da un versante il governo cinese punta sul riconoscimento facciale, sul tracciamento dei pagamenti e sul controllo delle comunicazioni – prevalentemente digitali – per identificare, schedare e fermare chi aderisce alle manifestazioni, dall’altro chi si oppone al controllo di Pechino (e, in particolare, alla possibile legislazione sull’estradizione), sta adottando alcune contromisure che fanno leva anch’esse sulla Rete.

IL RUOLO DELLE CRIPTOVALUTE

Una delle più recenti, rilevano i media internazionali, riguarda il ruolo delle criptovalute. Questo metodo per il trasferimento di denaro è un mezzo con il quale, rimarca CoinTelegraph, molte imprese stanno manifestando il proprio dissenso ma ha, innanzitutto, il beneficio di essere al di fuori dello sguardo delle autorità cinesi e del sistema centralizzato di pagamento di Hong Kong, Octopus (parola inglese che sta per piovra).
In questo scenario, monete digitali come il Bitcoin, ma non solo, sembrano essere fatti apposta per dare ai cittadini maggiori spazi di libertà e di anonimato, soprattutto se si guarda a realtà come Monero e Zcash che puntano tutto sulla privacy dell’utente.
Non è un caso, evidenzia Forbes, che gli scambi in criptovalute nell’isola siano notevolmente aumentati dall’inizio delle proteste. Con lo scoppio delle manifestazioni intorno a metà giugno, spiega la testata dedicata al business, il Bitcoin è stato scambiato con un premio di circa 160 dollari Usa su TideBit, una piarraforma di scambio di criptovalute con sede a Hong Kong. Mentre le proteste si sono protratte, quel premio persiste ancora, con l’ultimo prezzo di Bitcoin su TideBit a 11477,34 dollari americani, circa 80 biglietti verdi in più rispetto all’attuale tasso su Coinmarketcap. Nell’isola sono circa 39 bancomat Bitcoin al servizio dell’area e non mancano punti con dispotivi dedicati ai pagamenti in criptovalute. E ciò non piace a Pechino, che vede le monete digitali come un pericolo e per questo ne ha vietato gli scambi ai residenti nella Cina continentale, mentre alle aziende cinesi sulla terraferma non è permesso raccogliere fondi attraverso Initial Coin Offering (letteralmente Offerte di moneta iniziale).

TELEGRAM (E NON SOLO)

Un capitolo a parte merita invece l’uso di messaggistica crittografata, ritenuto essenziale dai manifestanti per comunicare in sicurezza. Una delle app più utilizzate, ha già raccontato Formiche.net, è Telegram, oggetto di diversi attacchi informatici (attribuiti, in alcuni casi, proprio a Pechino, perché apparentemente partiti da indirizzi Ip cinesi. La piattaforma, aveva rimarcato nell’occasione il South China Morning Post, viene spesso utilizzata nell’isola (assieme a programmi come Firechat, che può funzionare anche senza connessione Internet) per aggirare la pressante sorveglianza elettronica e per coordinarsi durante le proteste.
Ad ogni modo, aveva aggiunto il quotidiano di Hong Kong, con queste ultime proteste l’uso di piattaforme dotate di sistemi di cifratura ha segnato un cambio di passo, soprattutto se paragonato alle proteste avvenute nell’isola nel 2014, quando il centro dell’ex colonia britannica venne occupato per 79 giorni dai manifestanti pro-democratici, che utilizzavano Facebook e Twitter come piattaforme principali per diffondere i loro messaggi. Ora, invece, la sicurezza delle loro comunicazioni, e non solo, è aumentata. Anche per questo, ha scritto Reuters, proprio Telegram sarebbe in procinto di rilasciare una versione aggiornata dell’app in grado di consentire agli utenti di nascondere i loro numeri di telefono, soprattutto nelle grandi chat di gruppo utilizzate per restare in contatto e coordinare le proteste.

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