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La Russia dopo Putin. Mosca e la (difficile) ricerca di un erede

Un anno fa esatto, il primo canale televisivo statale russo mandava in onda gli episodi di un un documentario dal titolo eloquente: “Mosca. Cremlino. Putin”. Uno show che celebrava il culto della personalità del presidente russo, mostrandolo durante le vacanze e il tempo libero, mentre incontrava altri leader mondiali, come intento a spiegare il senso di una legge o di un’iniziativa politica che avrebbe permesso al suo Paese un qualche genere di slancio nel mondo. E nessun leader internazionale ha interpretato la geopolitica come ha fatto Vladimir Putin: il presidente russo è un attore geopolitico assoluto, un capo di Stato che sostiene una visione del mondo sintetizzabile nella volontà di ricostruire un grande status di potere attorno a Mosca. E questo ha iniettato nei suoi cittadini, ed è questo che è stato recepito del suo passaggio nella storia. Non solo in Russia.

“Il crollo dell’Unione Sovietica è il più grande disastro geopolitico del nostro secolo”, ha detto nel 2015, un aforisma diventato piuttosto famoso in cui non ci si deve fermare alla superficie, ossia all’aspetto dell’Urss sotto il punto di vista del comunismo, un elemento ideologico che Putin non ha interesse (e nemmeno capacità) di riproporre, ma lo Zar intende sostenere che qualsiasi russo deve necessariamente rimpiangere l’Unione Sovietica. Un periodo in cui la Russia era grande. Presupposto alla creazione di una figura carismatica che si fa ponte tra i lati romantici della storia e le speranze per il futuro, senza tralasciare l’aspetto universalistico affidato al collegamento stretto creato con la Chiesa ortodossa. Putin è la Russia: questo è il messaggio.

Entrato nel meccanismo del potere russo nel 1999 come primo ministro, ne uscirà (forse) alla fine dell’attuale mandato dopo aver costruito un impianto narrativo poderoso, che non ha solo definito il sistema di governo autoritario della Federazione, ma anche ridefinito il concetto di autoritarismo a livello globale. Dove il presidente è alla guida degli apparati, a cominciare da quello di sicurezza; concede alle élite spazi economici e d’interesse, ma le tiene fedeli conoscendo tutta una serie di kompromat costruiti sul loro conto, e allo stesso tempo è accettato come una sorta di Ceo di quel sistema elitario-oligarchico; anche per questo, può muoversi agilmente all’interno del quadro costituzionale, ne governa completamente i meccanismi, aggiustandone il perimetro quando serve. L’autoritarismo del 21esimo secolo. Qualcosa di talmente enorme che pone una problematica sulla successione, che non riguarda soltanto il futuro di Mosca – di per sé centrale – ma il destino della politica internazionale dell’intero pianeta.

Ora, ammesso che lasci realmente il potere, la domanda è: il suo successore che leader sarà? Putin nella prima parte del suo ciclo ha sfruttato la crescita del mercato energetico – in cui la Russia è attore di primo livello – per spingere parte della propria narrativa. Che passa anche da show di forza militare come il test su un missile balistico intercontinentale di oggi.

Ha permesso ai russi di uscire da una situazione sostanzialmente più povera, sebbene per assurdo più democratica, ma adesso l’economia risente ancora una volta delle flessioni del prezzo del petrolio e di altri beni. E Mosca ha osato molto su certi dossier – come la Crimea – che da una parte sono stati ottimi per spingere la narrativa nazionalista, sfruttando il parziale isolamento in cui è stata messa dall’Occidente, ma da un’altra hanno complicato la situazione economica, che finora ha retto bene alle varie crisi intercorse durante il ventennale mandato putiniano anche grazie a una rigida ortodossia fiscale.

Il prossimo leader spingerà questa narrazione, la estremizzerà, punterà su una continuità ingrandita come ha fatto Putin? L’attuale presidente russo ha costruito una parte del suo racconto sull’impegno storico russo, quello contro il nazismo per esempio, creando l’impalcatura in grado di sfruttare quel fondamentale momento della civiltà per sorreggere le sue visioni di una Russia-globale. Il suo erede seguiterà su questa strada? E fin dove si spingerà? Oppure si sposterà qualche passo indietro, verso la modellazione di un approccio meno aggressivo e più collaborativo con l’Occidente?

E la questione Cina? Mosca e Pechino si stanno avvicinando, hanno aperto relazioni come mai negli ultimi decenni, perché sentono che gli Stati Uniti soffrono il peso globale, hanno la volontà (le esigenze?) di ritirarsi, e cercano di unire le forze per scalfire l’impero americano: ma fino a quando durerà questa bromance? Pechino è un attore nazionalista e individualista, sfrutta le armoniose relazioni che intende costruire in giro per il pianeta per cavalcare i propri interessi: e allora, quando arriverà il momento che quegli interessi diventeranno egemonici su aree di influenza russe come l’Artico o l’Asia centrale e quella orientale, o ancora peggio la Siberia, cosa succederà?

Come si muoverà la Russia post-Putin è il tema del futuro, su cui l’Occidente sta iniziando a investire parte delle sue strategie, anche pensando alla spinta globale cinese. Non è un mistero che i pensatori dietro a Donald Trump abbiano pianificato un avvicinamento a Mosca in chiave anti-cinese. La definizione di un rapporto tra Washington e Mosca è tema di lunga data sugli affari internazionali. Gli americani non hanno ancora deciso come uscire dalla Guerra Fredda, ma d’altra parte Putin non ha mostrato le carte per favorire un qualche avvicinamento. E probabilmente la Russia dopo Putin resterà uguale a quella con Putin.



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