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Salvini, Pontida e la crisi d’agosto. Un’altra verità si fa strada

Con il passare dei giorni gli animi si calmano, i pensieri trovano una forma più compiuta e, in qualche modo, anche gli obbiettivi si fanno più chiari. Ed allora, alla vigilia dell’appuntamento di Pontida, si può proporre una versione diversa della crisi di governo alle nostre spalle, una versione che inquadra con angolo visuale nuovo le scelte del leader della Lega Salvini.

Versione che trova conferme interloquendo con diversi esponenti del partito, in molti casi anch’essi impegnati nella ricostruzione di quanto accaduto davvero.

Torniamo alla situazione di fine luglio, in cui Salvini è “alfa e omega” della politica italiana, inseguito (con sua piena collaborazione) da selve di microfoni, telecamere e smartphone in ogni momento della giornata. Egli è il politico italiano più importante, in vetta ai sondaggi, ministro dell’Interno, ago della bilancia del governo nazionale, trionfatore di tutti gli appuntamenti elettorali dei 12 mesi precedenti. Eppure sente che qualcosa non va, anche grazie ai segnali di quelli (non proprio tutti) che gli vogliono bene. In particolare capisce di avere troppi fronti aperti (diciamo cinque), il cui combinato disposto diventa una potenziale tempesta in grado di travolgerlo.

C’è un fronte interno al partito, dove cresce lo scontento per provvedimenti che ormai sono finiti sul binario morto (autonomie regionali in testa). È un fronte che ha in Lombardia e Veneto i suoi punti più critici, con il governatore Zaia in posizione sì leale verso Salvini sul piano personale, ma di feroce critica sul piano politico, poiché i veneti (ed anche i lombardi in verità, ma il carattere di Fontana è diverso) si sono espressi con un referendum destinato a restare inattuato.

Poi c’è un fronte sostanzialmente drammatico con l’alleato di governo. Qui vale la pena di farla breve: il M5S dopo le elezioni europee decide (con buona pace di Di Maio che si adegua) che il nemico è la Lega, di cui debbono essere frenati, sminuzzati, calpestati tutti i provvedimenti (ad eccezione di quelli in materia di immigrazione, di cui parleremo tra poco). Insomma una snervante guerra di posizione che rende un calvario la giornata di tutti i membri del governo leghisti, molto spesso colti da autentiche crisi di disperazione (Giorgetti compreso, tagliato fuori da ogni riunione importante a Palazzo Chigi).

Al terzo posto c’è un tema Viminale in stretta correlazione con la gestione del dossier immigrazione, vale a dire l’argomento che ha portato a Salvini milioni di voti. Qui la delicatezza è tutta nel rapporto tra la posizione rigidissima del ministro (quindi in grado di catalizzare consensi) e l’ostilità delle strutture istituzionali ad applicare impostazioni troppo drastiche (che non appartengono alla tradizione delle amministrazioni italiane). Capitanerie di Porto, Guardia Costiera, Prefetture, Forze di Polizia, Procure della Repubblica. E poi ancora ministeri competenti a vario titolo (Infrastrutture, Difesa): insomma un coacervo di norme, abitudini, volontà e sentimenti messo sotto pressione per dare sostanza alla indicazione politica, ma non per questo privo di strumenti per esprimere il suo dissenso.

Ma non è finita qui, perché ci sono altri tre fronti delicatissimi.

Il terzo è quello europeo, dove Salvini ha sottovalutato la forza dell’establishment di Bruxelles e Francoforte. Evitando di andare alle riunioni o sproloquiando di mini-bot e altre varie amenità, la Lega si è messa contro tutti quelli che contano, ottenendo cosi due (disastrosi) risultati. Il primo è ben visibile nel voto del 16 luglio che elegge Ursula von der Leyen a Presidente UE con il sostegno decisivo di PD M5S (quella è la vera data di nascita del governo giallo-rosso). Il secondo si sarebbe manifestato a breve con un atteggiamento di assoluta chiusura verso la manovra di bilancio italiana, rendendo così impossibile la Flat Tax e persino difficile evitare l’aumento dell’Iva, anche perché, nel frattempo, sia Conte che Tria avevano scelto di schierarsi dalla parte di Bruxelles (con buona pace del Capitano).

Il quarto fronte è anch’esso internazionale ma fuori da confini continentali. Qui Salvini ha giocato con poca lucidità tra Mosca e Washington, finendo per indispettire gli uni e gli altri. I primi chiamati direttamente in causa dalla vicenda Savoini (osservata con malcelato disappunto da quelle parti, per usare un eufemismo di spettacolare indulgenza); i secondi costretti a giocare una partita di rimessa che, come è noto, non è metodo apprezzato né alla Casa Bianca né al Dipartimento di Stato.

Infine, ed è il fronte numero cinque, c’è proprio la conversazione all’hotel Metropol del manipolo leghista, una vicenda tutt’altro che conclusa ma certamente fastidiosa per un ministro dell’Interno in carica.

Adesso mettiamo tutto insieme e proviamo ad entrare nella testa del leader della Lega, proprio nei giorni del suo successo clamoroso davanti al pubblico festante del Papeete. Ebbene possiamo affermare con ragionevole certezza che proprio Salvini capisce che i fronti aperti sono troppi, che lui è ormai la volpe cui danno tutti la caccia. A quel punto decide di spiazzare tutti, facendo una mossa che è in realtà più difensiva che offensiva, non priva della sostanziale ammissione di aver perso la battaglia d’estate.

Salvini prova a sparigliare, puntando alle elezioni (dal PD qualche segnale in tal senso gli è arrivato). Ma vuole innanzitutto azzerare la situazione e riprendere un (nuovo) filo del discorso. Vuole andare al governo con una maggioranza più “coerente” e vuole ripensare la strategia internazionale, avendo capito di avere sbagliato. E vuole provare a farlo prima che sia troppo tardi.

Ecco allora il nuovo atteggiamento verso i vecchi alleati italiani, con la partecipazione alla manifestazione della Meloni davanti al Parlamento e il pranzo di ieri a Milano con il Cavaliere. Ed ecco, con elevata probabilità, una nuova versione “sovranista” a livello internazionale, dove sarà il caso di seguire Orban (che ha votato a favore della von der Leyen) e limitare i rapporti con la Le Pen.

Insomma un Salvini che va all’opposizione per “ricominciare”, facendo tesoro degli errori (non pochi) commessi sin qui. In quest’ottica il discorso a Pontida andrà letto in controluce, depurandolo da tutti gli aspetti retorici e di propaganda.

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