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Perché la lezione del card. Silvestrini sarà utile a Conte. L’analisi di Cristiano

Era un uomo di altri tempi, ma per questi tempi, il cardinale Achille Silvestrini. I tempi che hanno visto il suo emergere, i tempi della guerra fredda, hanno fatto di lui e del suo superiore, il cardinale Agostino Casaroli, i simboli di una stagione che ha reso la diplomazia vaticana famosa nel mondo, sinonimo di qualità. Erano tempi in cui si raccontava che all’affermazione sulla qualità impareggiabile dei diplomatici del Papa qualcuno in Vaticano rispondeva: “Pensate gli altri…”. Eppure quella stagione, la stagione Casaroli-Silvestrini, che poi ha fatto emergere i Pietro Parolin, i Piero Sambi, i Lugi Gatti, i Claudio Maria Celli, alcuni tra i migliori diplomatici del Novecento, si è costruita su una capacità: dialogare. Il libro del grande Casaroli, “Il martirio della pazienza”, indica da solo che dialogare non è sinonimo di passeggiare, soprattutto se si tratta di dialogare dal Vaticano con l’Unione Sovietica e il blocco dell’est.

Il martirio della pazienza, sia chiaro, vuol dire che anche che la pazienza può anche essere martirizzata. Ma nel dialogo sempre si impara. E il cardinale Silvestrini, quando passò ad occuparsi di Chiese d’Oriente, è stato l’artefice dell’inizio dell’epoca conciliare, ancora oggi non capita o non accettata da molti, anche lì. In quel mondo dove sopravvive l’ultimo muro lui convinse Giovanni Paolo II a inserire una frase nell’esortazione apostolica post-sinodale per il Libano nella quale si afferma che i cristiani non sono nel mondo arabo ma del mondo arabo, della sua cultura. Fu così che Roma recepì il vero punto di rottura con l’integralismo cattolico, nel nome del quale il patriarca Sfeir aveva fatto scrivere nei lineamenta sinodali che la Chiesa aveva visto con dolore i suoi figli essere uccisi, uccidere e uccidersi tra di loro. Recependo l’invito ad aprire davvero una pagina nuova Silvestrini divenne dunque artefice e simbolo dell’inizio di una svolta epocale che ha consentito il cammino che da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ha condotto al traguardo storico della dichiarazione sulla fratellanza firmata da Papa Francesco e dall’Imam al Tayyeb. Gli anticonciliari la combattono ancora, ma parlare di Silvestrini in ambienti illuminati di tante capitali arabe equivale a parlare di un eroe. È possibile dire che senza la cultura di Chiesa in uscita del cardinal Silvestrini, Chiesa aperta, Chiesa che apprende, Chiesa che sa ascoltare e capire e non solo parlare forse avrebbe richiesto molto altro tempo.

Uomo di curia ma non curiale, monsignor Silvestrini è stato ricordato così su Vatican news da uno dei grandi tessitori di comprensioni e dialoghi, incontri e aperture (nel caso di specie con la Cina), Claudio Maria Celli: “Silvestrini dedicava grande parte del suo tempo al lavoro di ufficio per la Santa Sede, ma poi il resto del suo tempo era dedicato a Villa Nazareth, al dialogo con i giovani, al cammino dei giovani, nel rispetto grande del tempo di ciascuno. Il suo era uno stile mai impositivo: era sempre un accogliere, dialogando, dando spazio e rispettando proprio il cammino di crescita di ciascuno, i tempi di ciascuno. Questo per me è stato veramente di grande insegnamento. Era uomo di Chiesa, un uomo che amava profondamente la Chiesa e un uomo che era legato al Santo Padre. Le confesso che un giorno, mentre ero nel suo ufficio, il Segretario del Santo Padre lo chiamò al telefono dicendogli: “Eccellenza, il Santo Padre vuole parlarle”. La cosa che mi ha colpito – io l’ho sempre ricordato nella mia vita – è che si è alzato in piedi per parlare al telefono con il Papa, non è rimasto seduto. Mi ricordo ancora che gli disse: “Mi benedica, Padre Santo”.

Con i giovani don Achille, come lo chiamava chiunque lo conoscesse bene, aveva imparato a capire e accettare tante novità, tante scelte, tante innovazioni. A capirle, a recepirle facendosi capire e recepire. Non a caso monsignor Celli ha voluto sottolineare sul dialogo più difficile e certo non “giovanile”, quello con la Cina: “amo proprio ricordare questo perché mi tocca da vicino per il mio lavoro nella Santa Sede. Potrei dire che il dialogo con Pechino è cominciato al tempo di monsignor Silvestrini”.

Il tempo di don Achille dunque era questo, perché oggi di questo noi non siamo proprio capaci. Mai come oggi il mondo ci sembra fatto di bianchi e neri, senza grigi. Che il primo ministro incaricato, Giuseppe Conte, sia stato a Villa Nazareth, tesoro che don Achille lasciò in cura a monsignor Parolin quando era in Segreteria di Stato prima dell’ “esilio” in Venezuela, fa sperare più che per lui per noi. Un Paese senza capacità di dialogo davanti a questi strappi interni ed esterni, a queste innovazioni, a queste distanze generazionali, è in difficoltà. Persone come don Achille avrebbero saputo come aprire le porte anche in un momento difficile e denso di sospetti come il presente. Non con scorciatoie. Il breve colloquio concesso al premier Conte in occasione dei funerali di don Achille da Francesco, che ha fatto di discernimento e dialogo le cifre del suo pontificato, potrebbe aver suggerito al premier che chi apre le porte le trova aperte, non chiuse. E la via che nessuno può costruire da solo verso un “nuovo umanesimo” potrebbe trarne consigli e indirizzi utili.

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