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Cosa aspettarsi da Trump senza Bolton

Il licenziamento con cui il presidente Donald Trump ha cambiato il suo terzo Consigliere alla Sicurezza nazionale in tre anni (mossa, per quanto attesa, arrivata con le tipiche maniere poco protocollari) è un passaggio importante per gli sviluppi futuri della presidenza, delle prossime elezioni presidenziali, e dell’azione degli Stati Uniti su vari dossier internazionali.

John Bolton è da sempre considerato il falco che cerca di dettare una linea aggressiva allo Studio Ovale, e non è un caso se la sua estromissione è arrivata in un momento in cui invece Trump mostra “una certa apertura diplomatica”, come ha scritto il New York Times, su dossier come Corea del Nord e Iran.

Mentre sul primo Bolton ha più volte sottolineato l’assenza di progressi nel percorso negoziale, Trump continua dire chele cose stanno andando bene, tanto che ha persino giustificato il satrapo Kim Jong Un per i test missilistici degli ultimi mesi – mentre il consigliere li ha stigmatizzati condannandoli. Sull’Iran, ancora: se Bolton è la voce feroce che ruggisce contro il regime sciita (quattro anni fa ha scritto pubblicamente che l’unica soluzione per fermare i piani maligni, dal nucleare all’allargamento dell’influenza regionale con l’ausilio di milizie terroriste, sarebbe stata bombardare Teheran), Trump è ansioso di incontrare il presidente Hassan Rouhani e avviare da lì un nuovo, spettacolarizzato cammino negoziale.

Altra coincidenza temporale: Bolton è uscito di scena in un momento in cui Trump sta anche spingendo, in mezzo a tira e molla, un piano per chiudere un accordo di pace con i Talebani e abbandonare parzialmente l’Afghanistan. Una decisione che molti, tra cui Bolton, hanno fatto capire più o meno chiaramente di ritenere sbagliata per ragioni di sicurezza nazionale – sostanzialmente collegate al peso che il terrorismo assiepato in Afghanistan ha tutt’ora, a 18 anni esatti dal 9/11.

Il Cnas, Center for New American Security, ha inviato ai giornalisti un rapido giro di commenti in cui alcuni fellow del think tank di Washington analizzano l’uscita del consigliere dal circolo ristretto della West Wing. Val la pena prenderli in considerazione.

Love it or hate him – amalo o odialo – è informato sulle questioni di sicurezza nazionale”, dice Carrie Cordero, professoressa di legge della Georgetown con un’esperienza nei team legali di National Security Council (Nsc) e Director of National Intelligence. Cordero fa notare che, indipendente dal giudizio su Bolton, per un periodo di tempo – quello che passerà dall’individuazione del sostituto fino all’inizio del lavoro in fiducia col presidente – le decisioni di carattere strategico, quelle che tipicamente il presidente condivide con il Consigliere, uno dei collaboratori più intimi dello Studio Ovale, finiranno in mano a un circolo ristretto e famigliare di persone che difficilmente contraddico Trump. “Questa instabilità della leadership rischia di essere problematica davanti a questioni reali di sicurezza nazionale o emergenza”.

La collega Loren DeJonge sottolinea che comunque Bolton “ha fallito” in tutti i compiti essenziali che un consigliere per la Sicurezza nazionale dovrebbe avere, ossia condurre un processo politico equo e deliberativo, cercare un rapporto personale e fidato con il presidente, gestire con autorità il personale del Consiglio – DeJonge ha lavorato all’Nsc come advisor di Susan Rice. Bolton invece “ha usato l’incarico come mezzo per mettere in atto il suo programma di politica personale” – e qualcuno più velenoso aggiunge che il suo obiettivo era destabilizzare dall’interno la presidenza Trump, deviandola su posizioni più neo-conservatrici: un compito che gli era stato affidato da alcune parti del partito e dell’establishment statunitense.

Il licenziamento “dimostra che Trump non era contento della mancanza di progressi in una moltitudine di campagne di massima pressione economica: Iran, Corea del Nord e Venezuela”, aggiunge Neil Bhatiya, che per il Cnas copre le tematiche di carattere economico. “La partenza di Bolton potrebbe rinnovare lo slancio verso un serio impegno tra Washington e Pyongyang”, aggiunge Kristine Lee, che segue il delicatissimo dossier Asia-Pacifico. E non solo, aggiungono diversi altri analisti: l’incontro Trump-Rouhani, da cui iniziare a costruire una nuova, grande architettura di sicurezza in Medio Oriente potrebbe essere più vicino (con tutte le problematiche che il tavolo d’incontro si porterà dietro). Ma anche con la Russia, c’è la possibilità di più decise aperture.

Una nota interessante da collegare alle dimissioni di Bolton. Diversi stati ostili agli Usa, come appunto Corea del Nord e Iran, ma anche Russia e Cina, hanno usato più o meno direttamente il nome di Bolton per solleticare Trump, ritenuto dalla loro lettura propagandistica vittima di una sorta di limitazione interna, un golpe discreto operato dal consigliere per conto di quel Deep State che spesso lo stesso Trump ha tirato in ballo. Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, lo chiamava il “team B” dell’amministrazione, coloro che cercavano di far di tutto per alterare le visioni più aperte e negoziatrici del presidente con linee aggressive. Era un modo per cercare di mettere in difficoltà Trump sostenendo che era un presidente incapace di portare fino in fondo le sue politiche perché qualcuno dall’interno glielo impediva – ovviamente quei paesi lo facevano con interesse.

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