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Cosa insegna la dottrina della Chiesa ai turbocapitalisti. La riflessione di Pedrizzi

Ha fatto clamore in Italia e nel mondo la pubblicazione del documento “Lo scopo dell’impresa” della Business Roundtable degli Stati Uniti d’America. Una tavola rotonda di 181 uomini d’affari e non come quella più nota e nobile di cavalieri senza macchia e senza paura al servizio del Re e della Chiesa. Questa assise americana dà lavoro a 15 milioni di addetti, fattura complessivamente 7 triliardi di dollari, vede al suo vertice Jamie Dimon della JP Morgan Chase e trai suoi firmatari figurano AT&T, Amazon, General Motors, il fondo Black Rock, Apple, Pepsi, Walmart, Bank of America ecc.

Per la prima volta nella vita di questa associazione, i 181 firmatari affermano che accanto al profitto a favore degli azionisti, occorre perseguire anche gli interessi di altri stakeholder (dipendenti, fornitori, consumatori, comunità locale). La grande impresa cioè si interroga sul proprio ruolo sociale e dichiara di volersi orientare a non considerare come suo obiettivo il solo profitto ma ad includere anche la “protezione dell’ambiente” e la “dignità e il rispetto del lavoro”, dei consumatori, dei fornitori e delle comunità locali.

In pratica si è trattato di un vero e proprio proclama che dovrebbe sancire il tramonto delle teorie economiche proprie del capitalismo classico, secondo le quali la responsabilità sociale delle imprese consiste esclusivamente nell’aumentare i profitti. I giudizi sul documento statunitense sono stati tantissimi, disparati e di segno variegato, se non addirittura contrario ed opposto. Il Financial Times e molti commentatori italiani hanno addirittura ritenuto che ci sia stata una vera e propria svolta etica nella filosofia economica delle principali aziende statunitensi.

Invece c’è chi l’ha considerato solo una mossa di marketing come furono negli anni scorsi i cosiddetti bilanci sociali (si ricorderà che persino la Parmalat di Calisto Tanzi lo pubblicava) o una manifestazione di presunzione e/o di arroganza da parte di multinazionali che vogliono occupare spazi pubblici; oppure, ancora, è stato giudicato da altri come un tentativo di “pararsi” da eventuali attacchi della sinistra statunitense che, con Bernie Sanders ma ancor più con Elizabeth Warren, mette in discussione le fondamenta del capitalismo finanziarizzato americano.

Le osservazioni che ci sembrano più “centrate”, però, sono quelle del presidente di Saipem, Francesco Caio, che ha detto a Il Sole 24 Ore: “Noi italiani, per storia e ambiente, abbiamo una marcia in più nel valore sociale di impresa. Possiamo giocarcela alla pari con tutti, perché noi abbiamo molto da dire quando si parla di uno scopo”. Giustamente il manager ricorda l’insegnamento e l’esperienza di Adriano Olivetti.

Una giusta critica al pronunciamento Usa la fa anche Umberto Tombari che dice: “Trovo che il documento della Business Roundtable sia troppo generico per parlare subito di una vera svolta. Perché non esiste alcun obbligo, solo delle buone intenzioni”. Andrea Goldstein, dal canto suo, ricorda giustamente che si tratta di “una modesta novità per chi ha studiato sui testi di Gino Zappa e Carlo Masini. La scuola novecentesca di economia aziendale infatti pone al centro le relazioni tra stakeholder ed introduce valori come solidarietà, altruismo o responsabilità. Non c’era bisogno degli americani, insomma, per ricordare che dignità e rispetto per chi lavora sono altrettanto importanti che l’Ebitda (e magari anche più)”.

Anche l’amico Franco Debenedetti considera i propositi enunciati nel documento statunitense “di sconcertante ovvietà”… “Chi mai, oggi o in passato, esprimerebbe il proposito di fornire prodotti scadenti ai propri clienti, di sfruttare i propri dipendenti e di essere scorretto con i propri fornitori?”. Per allargare questa panoramica di giudizi ricordiamo Luigi Zingales, che pensa che si tratti “di fumo negli occhi”.

Infine c’è da chiedersi, come fa giustamente Gianni Toniolo su Il Sole 24 Ore: “Perché queste dichiarazioni non siano nate, come negli anni 30, nel momento più duro della crisi ma compaiano oggi, al culmine di una delle più lunghe – e forse inclusive – fasi espansive dell’economia statunitense. Non è stata la disoccupazione di undici anni fa a ispirarle ma è stata la crescita del populismo o magari il timore che le elezioni del 2020 consegnino la Casa bianca a un Sanders o a un Warren”.

Erano, infatti, più di quarantanni, dal 1978, che venivano pubblicati “I principi di Corporate Governance”, che avevano sempre sostenuto il primato dell’azionista fuori e dentro l’azienda, ma solo ora ci si accorge che il capitalismo ed il mercato lasciati a se stessi si sono dimostrati incapaci di diffondere equamente i benefici della crescita.

Comunque qualunque siano le motivazioni che hanno indotto i Ceo di Washington a firmare un documento, che ha la pretesa di segnare una vera e propria svolta etica nel mondo dell’impresa statunitense e, trattandosi di multinazionali, di tutto il mondo, una cosa è certa, ed è che arriva in ritardo ed al seguito delle dottrine socialdemocratiche, peraltro fallite, degli esperimenti dell’economia sociale di mercato, parzialmente riusciti, e, sopratutto, dopo la riflessione e gli insegnamenti della Dottrina della Chiesa che risalgono al 1891, anno della prima enciclica sociale “Rerum Novarum”. Basterebbe andar a cercare fior da fiore in questo patrimonio di saggezza per accorgersi della sua forza profetica e della sua attualità in tema di analisi e di proposte.

Esaminiamo infatti dettagliatamente il documento della “Tavola Rotonda” secondo il quale l’attenzione al profitto deve rimanere, ma dovrà essere solo una delle linee guida.

Ma la dottrina sociale cattolica spiega meglio questa idea: quando un’azienda produce profitto significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Al profitto si può e si deve attribuire infatti un significato etico perché ogni impresa nasce da un capitale, frutto di passato lavoro e appresta nuovo capitale per nuovo lavoro, che resta sempre il frutto e l’espressione più alta della spiritualità, dell’intelligenza e delle potenzialità dell’uomo.

Per quanto riguarda il nuovo ruolo dei Consigli di Amministrazione e dei manager delle imprese secondo il recente documento, il Magistero della Chiesa fin dal 1931 con la enciclica “Quadrigesimo anno” di Pio XI affermava: “E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento”. Riflessione ripresa da Papa Benedetto XVI nella sua insuperabile enciclica “Caritas in veritate”: “negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi”.

Inoltre quello che sarebbe una novità per gli americani, cioè investire nei dipendenti e nel territorio, da sempre è stato un imperativo della Dottrina sociale che ha declinato nella storia i principi di sussidiarietà, partecipazione, territorio e comunità e, sopratutto, della tutela della dignità del lavoro. “Il lavoro umano è parte della creazione e continua il lavoro creativo di Dio. Questa verità ci porta a considerare il lavoro sia un dono che un dovere. Il lavoro perciò non è meramente una merce, ma possiede la sua propria dignità e valore. (…).

È indubbio che la globalizzazione dei mercati ha sempre più bisogno, a qualsiasi latitudine e longitudine si operi, di coinvolgere e rendere corresponsabili della vita e del destino delle imprese, le cosiddette risorse umane. La partecipazione, perciò, mai come ora può diventare fattore di rafforzamento della competitività e sopratutto di benessere per i lavoratori, come suggerisce tutta la dottrina sociale della Chiesa.

Riassumendo le nostre considerazioni.

Per quanto riguarda la presunta svolta etica nella filosofia economica delle aziende statunitensi è vero che “non si tratta di esprimere un giudizio sull’autenticità o meno delle motivazioni intrinseche dei 181 Ceo – scrive molto benevolmente Stefano Zamagni – quanto piuttosto di riconoscere che quella dichiarazione di principio sia stata firmato”, dovrebbe far riflettere però che negli ultimi anni sia sul piano del rispetto delle leggi e delle regole sia sul piano della correttezza commerciale e del trattamento dei lavoratori, trai firmatari ci sono aziende che non si sono comportate bene.

Ad esempio la Bank of America è stata multata per 16,65 miliardi. È la più grande sanzione mai pagata da una società statunitense indagata dalle autorità per violazioni su titoli ereditati da Marrill Lynch e dal leader subprime Countrywide. Per risolvere tutti gli scandali scaturiti dalla crisi del 2008 la BofA pagherà quasi 80 miliardi di dollari. Jp Morgan, l’altra banca di investimento, che ha pagato un’analoga multa di 13 miliardi sempre per mutui subprime, esprime nientemeno il presidente della “Roundtable” con il suo Ceo Jaime Dimon, che è anche il primo firmatario del documento. Anche la Commissione europea aprì una indagine contro tre banche internazionali tra cui Jp Morgan sospettate di avere partecipato alla manipolazione dell’Euribor. Alla fine del 2013, un gruppo di banche era stato già multato da Bruxelles per un totale di 1,7 miliardi di euro per manipolazione dell’Euribor, tra cui Citigroup, che dal suo canto, già ha accettato di pagare 7 miliardi di dollari al governo americano per gli scandali sui titoli derivati dai mutui legati alla crisi. Recentemente ha patteggiato con 100 milioni di dollari per condotta fraudolenta riguardante il Libor.

Il documento americano è firmato peraltro – e non depone bene – da personaggi che sono, nello stesso tempo, azionisti e manager delle loro società che continuano a percepire stratosferiche retribuzioni che stridono con i salari e gli stipendi medi dei loro dipendenti. Basta pensare solamente che alla Walmart, dove gli stipendi medi si aggirano sui 19.177 dollari l’anno e si confrontano con il guadagno del Ceo (Chief Executive Officer, ossia il nostro Amministratore Delegato), Doug McMillon, pari a 22,2 milioni di dollari.

Tra le aziende firmatarie poi c’è chi come Amazon viola i diritti più elementari dei propri dipendenti, controllandoli a vista come si faceva con gli schiavi più di un secolo fa, pagando stipendi da fame e sfruttandoli. Il colosso dell’e-commerce infatti ha brevettato i “bracciali intelligenti” legati al polso dei lavoratori per monitorare la correttezza e la rapidità di ogni singolo movimento e avvisare con una vibrazione in caso di errore o ritardo. Inoltre il suo numero uno Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo perché ha accumulato un patrimonio di 100 miliardi di dollari, 2,4 dei quali guadagnati in solo giorno.

Vi sono infine altre aziende firmatarie che hanno truffato e danneggiato gli stakeholder come la Johnson & Johnson che è stata condannata a pagare per ora 4,7 miliardi di dollari dal tribunale di Los Angeles per aver procurato il cancro alle ovaie a 22 donne che avevano utilizzato i suoi prodotti. Il conto salato potrebbe ulteriormente salire perché vi sono ben 9 mila cause pendenti per lo stesso motivo.

Proprio per questo Larry Summers, ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti con Clinton, diffida perciò delle buone intenzioni della “Business Roundtable”. Si tratterebbe di una mossa preventiva, a suo giudizio, per difendersi da un’eventuale riforma fiscale, specie se alla Casa Bianca, tornassero i democratici con una svolta “socialista”. Una mossa preventiva che in ogni caso arriva in ritardo perché da sempre il Magistero cattolico ritene che chi svolge un’attività economica non può non avere la consapevolezza di essere prima di tutto al servizio della comunità e della economia nazionale, se vuole che l’uomo resti e sia al centro dell’impresa.


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