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L’affare Ucraina è una buona carta anti-Trump per i Dem?

La storia che sta interessando la politica americana (attenzione: la politica, non l’opinione pubblica) è questa: il presidente americano Donald Trump avrebbe chiesto al suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky di indagare su Hunter Biden, figlio del contender democratico Joe Biden, minacciando che se non l’avesse fatto la Casa Bianca non avrebbe dato il via libera definitivo a un pacchetto di aiuti militari. Armi che per Kiev sono utilissime nella lotta contro i separatisti filo-russi del Donbas.

Tutto è avvenuto durante una telefonata del 25 luglio, ma è noto che i Trumpers (a cominciare dal cyberman Rudy Giuliani) stanno pensando di utilizzare la vicenda per costruirci attorno una narrazione elettorale. Hunter Biden era membro del consiglio di amministrazione di una società del gas finita sotto indagine anti-corruzione da parte di un procuratore che è stato rimosso dal suo ruolo perché considerato a sua volta corrotto. Trump e i suoi stanno cercando di accusare Joe Biden di essersi intromesso nel procedimento d’inchiesta e usato la sua influenza come vice-presidente (quale era all’epoca dei fatti) per far licenziare il procuratore e proteggere il figlio. Va detto che al momento, al netto di chiacchiere e complotti, non c’è nessuna prova a sostegno di questa ricostruzione.

La telefonata con l’offerta di baratto di Trump ha insospettito uno degli agenti che monitorano le conversazioni del presidente con i leader stranieri (perché sembrava un atteggiamento strambo, mettere lo scontro politico interno sopra l’interesse nazionale) ed è arrivata una denuncia formale, salita fino ai massimi piani del Director della National Intelligence e passata direttamente alla Commissione Intelligence della Camera, che a sua volta ha aperto d’ufficio un’indagine congressuale.

Trump ha utilizzato dunque il potere di dare l’ultima parola su importanti decisioni di politica estera per suo tornaconto elettorale? Qui sta il punto. Nel caso, ha ricattato Zelensky perché la Giustizia ucraina indagasse sul conto del figlio del suo avversario più forte in vista delle presidenziali del prossimo anno nel tentativo di screditarlo? Archiviati i clamori del Russiagate del 2016 siamo davanti a un Ukrainegate?

I fatti dicono che quegli aiuti militari — votati dal Congresso e avallati da Pentagono e dipartimento di Stato — sono rimasti congelati perché non c’era il semaforo verde della Casa Bianca. Tanto che congressisti e funzionari più di una volta sono arrivati sui media a criticare questo blocco alludendo che poteva essere un atteggiamento scelto da Trump per non indispettire troppo Vladimir Putin, che vede gli armamenti americani in Ucraina come una minaccia diretta e ricatta Washington dicendo che metterebbero in crisi totale i rapporti — che invece per parte degli strateghi trumpiani hanno valore fondamentale per bilanciare la Cina.

I democratici prendono la questione come una doppia ferita, al cuore delle istituzioni e a quello del candidato che potrebbe raccogliere maggiori consensi. Una situazione che avvicina le due anime del partito, quella moderata e protocollare dei senatori e dei leader del Congresso, e quella aggressiva e movimentista rappresentata dalla Squad. Entrambe sembrano intenzionate a usare la vicenda come un’altra occasione — dopo quella fallirà col Russiagate — per chiedere un improbabile impeachment. Quanto meno vorrebbero trasformarla in qualcosa di simbolico che possa nascondere le magagne della piattaforma politica proposta dai Dem e magnetizzate qualche voto contro la Casa Bianca. Il problema è che l’affaire-Zelensky non è una questione di dominio pubblico e per il momento non scalda i cuori degli indecisi: gli altri escono dalla storia distratti, ma vicendevolmente convinti delle proprie posizioni pro o contro Trump.

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