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Wong in Germania, gli Usa sui lacrimogeni. La crisi di Hong Kong è internazionale

“Hong Kong è la nuova Berlino nella nuova Guerra fredda”, ha scelto chiaramente una retorica forte Joshua Wong, leader del partito Demosisto di Hong Kong, ospite oggi nella capitale tedesca pochi giorni dopo essere stato rilasciato dal carcere in cui le autorità cinesi lo aveva rinchiuso per responsabilità collegate alle proteste che da settimane funestano l’ex colonia britannica, dove i cittadini sono scesi in strada contro la cinesizzazione spinta da Pechino e in ultima istanza per chiedere la democrazia.

Abbiamo chiesto il dialogo alla Cina, dice Wong, “ma non abbiamo ricevuto mai risposta”. Anzi, aggiunge, il governo cinese ha mandato più truppe per sopprimere le manifestazioni. “Carrie Lam (la governatrice locale, ndr) ha dato luce verde alla brutalità della polizia” prosegue l’attivista, arrivando a chiedere apertamente che l’Europa e la Germania condannino le violenze.

“L’Europa dovrebbe sospendere le trattative commerciali finchè i diritti umani non saranno messi in agenda”. Tocca il cuore del problema: come è possibile dialogare e intavolare partnership sulle politiche commerciali con una Cina che continua a disinteressarsi dei principi valoriali – libertà, democrazia, diritti – su cui si basa l’Occidente?

Wong passa da Berlino diretto a Washington dove incontrerà think tank, direttori di diversi media e il senatore Marco Rubio. È un evidente tentativo di internazionalizzare la crisi, una via scelta dai leader delle proteste apertamente nei giorni scorsi, quando hanno manifestato davanti al consolato americano di Hong Kong e chiesto apertamente ai congressisti una legge per condannare le violenze della polizia cinese.

Ieri tre congressisti americani – due democratici e un repubblicano – hanno promosso una legge, Protect Hong Kong Act, per vietare alle società americane di vendere prodotti anti-sommossa alla polizia dell’ex colonia britannica. A cominciare dai candelotti per i gas lacrimogeni, che sono stati spesso usati contro la folla come armi vere e proprie, sparati ad alzo zero (una ragazza ha perso un occhio per un colpo, e da quel giorno presentarsi bendati in strada è diventato uno dei simboli iconografici delle proteste).

Si tratta del massimo coinvolgimento americano – finora – sul dossier. La Cina ha reagito ruggendo, accusando Washington di “pura ipocrisia e doppi standard”: “Se crimini violenti simili a quelli di Hong Kong avessero luogo negli Stati Uniti, quelle persone del Congresso americano manterrebbero lo stesso livello di benevolenza?”, ha detto la portavoce del ministero degli Esteri cinese.

Se la proposta si trasformerà in legge, diventerà operativa nel giro di 30 giorni, mentre i congressisti hanno anche chiesto al dipartimento di Stato di fornire un intero elenco delle attrezzature militari americane la cui vendita è stata concessa a Hong Kong (si tratta di materiale che finisce direttamente sotto il controllo delle guarnigione cinese locale).

Secondo alcuni osservatori, per i manifestanti la sponda americana è rischiosa. La richiesta di Wong e le prime azioni concrete degli Usa potrebbero facilitare la narrazione con cui Pechino sostiene – in modo propagandistica e disinformativo – che dietro alle manifestazioni c’è la mano della Cia.

(Foto: Twitter, @c_lindner, Wong con due parlamentari tedeschi)

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