Qualche volta dipende da dove si piazza la congiunzione avversativa “ma”. Marina Sereni, viceministro degli Esteri per il Pd: “Apprezzo la sensibilità di chi esprime forti critiche, ma noi con la Libia dobbiamo ragionare”. Giuseppe Conte, presidente del Consiglio: “Il memorandum con la Libia non può essere gettato in mare, ma ci sono ampi spazi per migliorarlo”. Sfumature si trovano in quasi tutte le dichiarazioni politiche sull’accordo firmato due anni fa dal governo Gentiloni con quello di Tripoli: c’è chi spinge perché si cancelli del tutto e chi è terrorizzato (ma non può dirlo apertamente) dalle conseguenze sui flussi migratori e sugli ulteriori voti che arriverebbero a Matteo Salvini. Il quale, ovviamente, si frega le mani: “Si scannano su sbarchi e Libia”.
Sulle modifiche al patto del 2017 concorda anche Marco Minniti, che da titolare dell’Interno ne fu il padre e lo rivendica: in un’intervista alla Repubblica prova a far capire che la Libia è un problema italiano maggiore di quanto l’opinione pubblica percepisca. Se la guerra civile in atto ha cambiato lo scenario, non si può agire con la ruspa e sarebbe un errore cambiare unilateralmente quell’accordo. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, sa di percorrere un sentiero strettissimo: è conscio del fatto che non si può fare a meno di una collaborazione con la Libia pur dovendo districarsi tra l’ala dura del Movimento 5 stelle e la linea del Pd un po’ diversa da quella di due anni fa. Per questo ha annunciato una riunione della commissione congiunta italo-libica per discutere le modifiche puntando a un maggiore ruolo dell’Onu e delle organizzazioni internazionali senza entrare nei dettagli. Un messaggio rivolto alla base anche per prendere tempo.
Il 6 novembre il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, riferirà alla Camera sul memorandum. Nel frattempo, Nicola Zingaretti ha detto che il testo deve “cambiare radicalmente” e a Montecitorio il capogruppo democratico nella commissione Esteri, Lia Quartapelle, ha parlato di maggiori corridoi umanitari, dello svuotamento dei campi dove i migranti sono detenuti e di una maggiore presenza delle organizzazioni internazionali. Temi straordinariamente complessi anche perché un portavoce della Commissione europea si è affrettato a precisare che non esiste la possibilità di creare hot spot in Libia sotto il controllo dell’Ue visto che non è considerato un Paese sicuro.
Svuotare i campi significherebbe, per esempio, poter intensificare i rimpatri volontari per i quali occorrono un po’ di soldi e i corridoi umanitari sono una civilissima soluzione che però può riguardare solo poche centinaia di persone la volta, anche se si ipotizzano verso altri Paesi europei ed extraeuropei e non solo verso l’Italia. Raramente si ricorda che al 31 maggio dell’anno scorso, ultimo giorno del governo Gentiloni-Minniti, gli sbarchi erano già crollati del 77,7 per cento rispetto all’anno prima e che il trend in calo è proseguito per il crollo delle partenze su tutte le rotte per accordi (Libia), per controlli alle frontiere (Marocco e Turchia) e solo in parte per merito di Salvini. L’eccezione negativa è la Grecia. Di Maio e Zingaretti dovrebbero chiarire meglio l’obiettivo: pur nel rispetto dei diritti umani, vogliono collaborare con i libici per frenare le partenze o c’è un sottinteso messaggio di maggiore apertura? In attesa della risposta, Salvini si frega le mani.