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Con Al Baghdadi non muore l’Isis. Cristiani (Iai/Gmf) spiega perché

Di Dario Cristiani

La mattina del 27 ottobre 2019, il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato la morte del leader del sedicente Stato islamico (Isis), Abu Bakr al-Baghdadi, uccisosi durante un blitz delle forze speciali Usa nei pressi di Barisha, nella provincia siriana di Idlib.

Le scomparse dei leader delle organizzazioni jihadiste sono spesso causa di controversie. I casi di Amadou Koufa, o del “plurideceduto” Mokhtar Belmokhtar, dimostrano che il rischio di fare brutta figura, sia per i leader politici che per gli analisti, è sempre dietro l’angolo. Lo stesso Al-Baghdadi era stato dato per morto svariate volte. Il sedicente Stato islamico non ha ancora confermato la morte del leader e gli account social dell’organizzazione sono rimasti per lo più silenti. In questo caso, però, la notizia sembra avere fondamenta solide. Difficilmente Trump si sarebbe esposto in tal modo senza certezze.

Chiaramente, l’uccisione di al-Baghdadi è un successo per l’amministrazione Usa, se non altro per il suo impatto mediatico e simbolico: a due settimane dal controverso ritiro delle truppe dalla Siria, un blitz Usa ha eliminato il leader dell’Isis. Per molti elettori americani, probabilmente, la mera sequenza temporale è sufficiente per mettere gli eventi in correlazione causale, nonostante sia stato negato un nesso tra le due questioni.

La morte di al-Baghdadi pone una serie di domande sul futuro dell’organizzazione. La portata simbolica del suo decesso è enorme. Da un punto di vista sostanziale, invece, l’impatto sarà limitato. Sebbene la storia non ripeta necessariamente se stessa, la morte di un leader jihadista difficilmente causa la fine del gruppo cui apparteneva. Anzi, in molti casi, è vero l’esatto opposto.

IL SIGNIFICATO DELLA MORTE DI UN LEADER 

La storia di Al-Qaida, ma anche quella delle diverse e precedenti declinazioni del sedicente Stato islamico, lo conferma. La morte di Bin Laden non ha causato la fine di Al-Qaida, ma ha solo accelerato il processo di trasformazione di un movimento che è di fatto risorto. Per l’Isis, la morte dei suoi leader ha sempre rappresentato l’anticamera di fasi di ulteriore espansione e istituzionalizzazione: la fine di Al-Zarqawi, infatti, coincise con l’inizio di una fase di rafforzamento “nazionale” – basato sulla centralità dell’elemento iracheno – e di istituzionalizzazione.

Cardine di questo progetto fu il successore di Al-Zarqawi, Abu Omar al-Baghdadi. La sua uccisione nel 2010 aprì una nuova fase nello sviluppo dell’organizzazione. Il gruppo si è andato trasformando fino a farsi promotore di un nuovo califfato auto-proclamato, sfruttando le Primavere arabe e in particolare la guerra civile siriana che gli ha fornito sia una nuova base territoriale, sia un fenomenale magnete per attrarre aspiranti jihadisti da tutto il mondo, come fu l’Afghanistan negli Anni ’80.

Ora, la morte di al-Baghdadi, da un lato, non significherà la fine dell’Isis, ma aprirà semplicemente una nuova fase di sviluppo dell’organizzazione. Dall’altro, la sua morte non avrà, però, neanche un effetto immediato sulle operazioni dei differenti gruppi legati al movimento. Al-Baghdadi e la leadership, infatti, non dettavano le logiche delle operazioni quotidiane. Nonostante la catena di comando fosse nettamente più verticale, centralizzata e iracheno-centrica rispetto a quella più diffusa e meno gerarchica che Al-Qaida aveva costruito negli ultimi 20 anni, una serie di limitazioni logistiche e gli effetti della campagna militare in Siria e Iraq avevano di fatto accresciuto l’indipendenza strategica, logistica e finanziaria dei suoi gruppi locali.

L’esperienza dell’Isis nei Paesi dell’Africa mediterranea, occidentale e del Sahel suggerisce, pertanto, che da tempo essi agissero in sostanziale indipendenza. Da un punto di vista tattico e contingente, non vi saranno cambiamenti significativi, al netto dei tentativi di organizzare attacchi per vendicarne la morte.

UNA SUCCESSIONE CHE DIVIDE 

In questa logica, il momento fondamentale per capire l’evoluzione dell’organizzazione sarà la nomina formale del nuovo leader. Per una serie di motivi: in primis, il giuramento di lealtà (Bay’ah) è personale, non “istituzionale”. Quindi, la morte di al-Baghdadi implica che tutti i leader delle diverse province dovranno offrire nuovamente il loro giuramento. Da questo punto di vista, un nuovo leader non accettato da tutte le province può essere fonte di un nuovo processo di frammentazione. Inoltre, la scelta del successore dirà molto anche sulle dinamiche di sviluppo territoriale dell’organizzazione e delle relazioni con al-Qaida. Molti dei nomi emersi nelle ultime ore sono tutti legati al teatro iracheno, ma non è detto che il nuovo leader provenga necessariamente da lì. In tal senso, è interessante richiamare un dibattito emerso due anni fa.

Nell’estate del 2017 – quando vi furono speculazioni sulla morte di al-Baghdadi – il franco-tunisino Mohammed ben Salem al-Ayouni (Jalaluddin al-Tunisi), all’epoca emiro della Provincia di Tripoli, fu individuato come potenziale successore. Tale idea considerava la crescente centralità delle province libiche, il fatto che al-Ayouni avesse anche un passaporto europeo – essendo cittadino francese – e fosse, quindi, naturale elemento di attrazione per gli jihadisti europei, e i buoni rapporti che intratteneva con elementi qaidisti regionali. Questo dibattito, però, provocò la ribellione di alcuni gruppi, che vedevano in esso il segno di divisioni crescenti. Questi passaggi non sono necessariamente indolori e potrebbero riemergere nel dibattito sulla successione, lasciando fuori alcuni gruppi pronti poi a muoversi in maniera più indipendente.

Almeno a livello teorico, l’idea di un leader non iracheno non è tabù e le logiche presenti dietro tale dibattito potrebbero essere ancora valide, specialmente se si guarda all’evoluzione – e rafforzamento – dell’organizzazione in Africa, non solo nei territori già citati, ma anche in Mozambico e nella Repubblica Democratica del Congo.

Qualora il successore di al-Baghdadi dovesse provenire da qui, e non dal teatro siro-iracheno, ciò segnerebbe la formalizzazione della crescente centralità dell’Africa per l’organizzazione. Nell’evoluzione di Al-Qaida da ‘base’ afgana a organizzazione globale, il suo sviluppo in Africa negli anni ’90 rappresentò un passaggio cruciale. La storia non ripete necessariamente se stessa ma è bene ricordarla, soprattutto quando si parla di organizzazioni resilienti, come le organizzazioni radicali jihadiste.

(Articolo pubblicato su Affarinternazionali)

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