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Siria, ovvero il disastro della politica estera Usa. Parla il gen. John Allen

“Migliaia di combattenti dell’Isis sono rimasti infiltrati in mezzo alla popolazione, ci sono attacchi suicidi ogni giorno”. Assiste inerme al caos in cui è caduta di nuovo la Siria il generale John Allen, e non riesce a trattenere rabbia e delusione. Sono trascorsi cinque anni da quando l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama gli ha affidato una missione senza precedenti: sconfiggere l’Isis. Inviato del governo americano per la Coalizione globale contro lo Stato islamico, Allen ne ha presto preso le redini e l’ha allargata a 65 Stati.

Un risultato che deve molto alla sua immagine e credibilità personale. Quarant’anni di servizio nei Marines, generale a quattro stelle, comandante del Commando centrale degli Stati Uniti, poi della missione Nato Isaf (International Security Assistance Force) e dei suoi 150mila uomini in Afghanistan, pochi militari in America possono vantare il suo curriculum. Oggi è presidente della Brookings Institution e tiene a precisare di essere un “generale in ritiro”. Non riesce però a guardare con distacco il nuovo bagno di sangue che lambisce i confini di un Paese già martoriato da sei interminabili anni di guerra civile. Né sa e vuole giustificare il ritiro dell’esercito imposto dal giorno alla notte dal presidente Donald Trump che ha dato il via all’invasione turca e al nuovo, ennesimo patibolo del popolo curdo, fino a ieri fedele alleato degli americani.

“Questo gesto rappresenta un’abdicazione della responsabilità americana nella regione” confida in un colloquio con Formiche.net. “Il tradimento dei curdi mi riporta alla memoria la fine della guerra in Vietnam, quando sconfitti abbandonammo i nostri alleati sud-vietnamiti nelle mani dei comunisti del Nord”. Allora Allen si preparava a laurearsi all’Accademia navale degli Stati Uniti prima di entrare nei Marines. “Fu un’umiliazione, una macchia che ancora segna gli americani di quella generazione. L’abbandono dei curdi ci riporta agli stessi sentimenti che ci perseguitavano allora”. Il generale sa di cosa parla. Ha conosciuto dal vivo i curdi, ha coordinato con loro la guerra ai tagliagole dell’Isis, racconta. “Quando ho iniziato la mia missione nel 2014, non avevamo opzioni nel Nord della Siria. L’Isis aveva conquistato tutto il confine, dal Governo regionale del Kurdistan a tutta la frontiera turca fino ad Afrin”.

Il primo incontro ravvicinato si consumò a Kobane, roccaforte curda al confine Nord. “L’Isis voleva sconfiggere e soggiogare la popolazione della città. Gli Stati Uniti e le forze della Coalizione con la loro potenza di fuoco hanno coperto le spalle ai difensori di Kobane e inflitto all’Isis la sua prima grande sconfitta in Siria. Da quella battaglia, dove le forze speciali americane hanno combattuto fianco a fianco ai curdi, abbiamo imparato che questo popolo è davvero un degno alleato”. Fu l’inizio di un lungo sodalizio, dice Allen. Perché da allora i curdi siriani dello Ypd e il loro braccio militare, lo Ypg, assunsero la guida di una grande coalizione composta da arabi, siriaci, assiri, turkmeni: le Sirian Democratic Forces (Sdf). “Le nostre forze speciali hanno lavorato molto da vicino con questa compagine e la sconfitta dell’Isis ne è il risultato. In questa battaglia circa 11mila fra i curdi e i loro alleati siriani sono stati uccisi e 12mila combattenti dell’Isis catturati. I curdi erano nostri alleati, abbiamo sanguinato al loro fianco liberando le loro terre”.

Anche oggi i curdi sanguinano, ma lo fanno soli. “Un fallimento totale per Trump” chiosa cupo il generale. Il bilancio è impietoso, soprattutto per gli effetti di medio-lungo periodo che il diktat della Casa Bianca avrà sulla politica estera americana e gli equilibri mediorientali. “La decisione di portare via le truppe statunitensi dalla Siria e al tempo stesso di sanzionare leader e aziende legate al governo di Ankara ha spinto i turchi nelle braccia dei russi, ha definitivamente consolidato il controllo di Damasco sul Paese e avallato il passaggio alla fase finale della guerra civile di Assad”.

Chiediamo al generale chi esce vincitore dal dramma consumato nel Nord della Siria. Ci fa subito due nomi: Iran e Russia. “La mossa di Trump ha aperto le porte della Siria agli iran
iani creando un importante corridoio di supporto per Hezbollah in Libano. Così facendo ha peraltro vanificato l’opposizione americana alle forze iraniane presenti al confine siriano con Israele”. Quanto a Mosca, non si fatica a capire perché si appresti a incassare un’enorme vittoria diplomatica. Dice Allen: “Il risultato finale è che le nazioni mediorientali saranno molto più ben disposte nei confronti di Putin che di Trump. Questa settimana, mentre gli Stati Uniti impiegavano forze per difendere l’Arabia Saudita, Putin veniva accolto dal re e dal principe. Il giorno dopo era negli Emirati Arabi a incontrare la loro leadership. Tutti gli Stati arabi della regione stanno osservando con grande preoccupazione l’ascesa della Russia dal momento che Mosca è stata un alleato dichiarato dell’Iran in Siria”. Perfino Pechino brinda al ritiro americano, spiega il numero uno di Brookings. “I cinesi stanno approfittando del momento per aumentare la loro presenza politica ed economica nella regione”.

Al conto salatissimo che la Siria è pronta a consegnare a Washington si aggiunge una mancia non trascurabile. L’invasione turca e l’aggressione dei curdi hanno inevitabilmente alleggerito la pressione su ciò che resta dei guerriglieri di Daesh. E hanno iniziato a spezzare le catene che li tengono rinchiusi a migliaia nelle carceri curde. Ain Issa, Hasakah, Navkur, Qamishlo, di giorno in giorno si allunga la lista dei campi di prigionia da cui i miliziani e i loro familiari riescono a fuggire per darsi alla macchia. Per Allen è un mesto spettacolo. “Le Sdf e le forze della Coalizione hanno sconfitto alcune fra le più importanti unità tattiche dell’Isis nel Nord Est della Siria – dice. Checché ne dica Trump, l’Isis “non è morto”. “Con la capacità di combattimento delle Sdf depotenziata o neutralizzata dai turchi è probabile che assisteremo presto a un suo parziale ritorno”.

Una rinascita che porta la firma di Recepp Tayyip Erdogan e del governo turco. Che ora dovranno rispondere delle loro azioni, tuona Allen. Il veterano dei Marines ha dedicato un’intera carriera militare al suo Paese, ma è anche stato uno dei più rispettati generali della Nato negli ultimi dieci anni. Sa che l’aggressione siriana non può lasciare indifferente l’Alleanza, di cui la Turchia è parte integrante. La marcia armata sulle terre dei curdi è solo l’ultima di una lunga serie di provocazioni che impongono agli alleati una riflessione urgente.

“La Turchia acquista sistemi altamente sofisticati da russi e cinesi, ha consiglieri di entrambi i Paesi fra le sue forze armate, la Nato dovrebbe seriamente preoccuparsi della sicurezza delle sue informazioni e della sua interoperabilità”. Non si può chinare il capo di fronte ad Erdogan, sentenzia Allen. “La sola minaccia di trasportare 3,6 milioni di rifugiati in Europa è una ragione sufficiente ad avviare a Bruxelles un dialogo sull’espulsione della Turchia. Se continuerà a comportarsi come uno Stato ostile la Nato dovrà decidere se sia il caso di tenerla con sé”.

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