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Così la disuguaglianza spacca il Cile. Parla Mori (Ispi)

Un camion militare ha travolto un ventiduenne nel villaggio di Libertad, vicino alla città di Talcahuano, nella regione centro-meridionale del Cile: è la quindicesima vittima di questi giorni di proteste nel paese; 1500 i feriti. A Santiago è passata la terza notte di coprifuoco, e il provvedimento è stato esteso ad altre città e regioni del Paese. Era dal 1987, durante gli ultimi anni della dittatura di Augusto Pinochet, che certe misure non venivano prese da un governo cileno.

Per fare il punto su cosa sta succedendo, Formiche.net ha contattato la professoressa Antonella Mori, dell’Università Bocconi di Milano, a capo del programma America Latina dell’Ispi. Qual è il quadro generale dietro a queste proteste, apparentemente mosse dall’aumento di poche percentuali sul costo dei biglietti per i mezzi pubblici? “Partiamo dal dire che la rabbia è esplosa con una modalità del tutto simile a ciò che vediamo in altre parti del mondo quando c’è risentimento contro i governo. Ma la ragione profonda dietro a ciò che sta succedendo è la forte disuguaglianza percepita nel Paese”.

Ieri la questione delle disuguaglianze era il tema di un articolo che è stato ripreso da diversi media internazionali per descrivere la crisi: lo ha scritto la giornalista Paulina Sepúlveda su La Tercera, tra i principali quotidiani cileni, e ha un titolo eloquente, “Quanto è diseguale il Cile?”. “Anche se il Cile è un Paese a reddito medio-alto — spiega Mori — ha un sistema di welfare state molto limitato. Sebbene l’indice di Gini (coefficiente di riferimento per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gino e internazionalmente adottato. Ndr) sia simile a quello di Usa, Regno Unito e Spagna, in Cile la situazione è più percepita perché mancano i caratteri dell’intervento pubblico che in altri Paesi lavorano per ridurre questa disuguaglianza”.

La studiosa italiana ricorda che il Cile fa parte dell’Ocse, “proprio perché è una realtà sviluppata”, e ci sono diversi studi dell’organizzazione che hanno dimostrato che l’intervento pubblico in Cile non è mai stato sufficiente a migliorare le condizioni di disuguaglianza nel Paese. “E per questo, l’aumento di un costo del sistema pubblico, nel caso specifico i trasporti, abbinati alla consapevolezza che l’aiuto dello Stato non serve a niente, diventa occasione per sfogare la propria rabbia da parte di una nuova classe media (gli ex poveri) che vorrebbe una maggiore e migliore ridistribuzione”.

Alcuni critici hanno accusato il neoliberismo cileno per la situazione stratificata per anni, “è tutta colpa del liberismo” è un mantra diventato titolo di meme satirici: cosa c’è di realistico? “Diciamo che molto di quello che c’è oggi in Cile viene in effetti dall’esperienza di Pinochet, però ci sono stati trent’anni di governi democratici che non sono riusciti a intervenire sulla costruzione di uno stato sociale più forte”.  Cosa servirebbe? “A mio avviso, serve far pagare più tasse: una misura che capisco è complicata da proporre. Però è possibile in un’economia abbastanza aperta al mercato, a patto che si dia alle politiche pubbliche un ruolo più importante. E gli spazi ci sono, per esempio la tassazione sui redditi, finora bassa, e quella sui capitali, inesistente: a quel punto, una volta che sono aumentate le entrate con le tasse si può fare spesa pubblica. Sconsiglierei il contrario, un passo estremamente azzardato”.

“E non credo serva essere dei rivoluzionari per fare certe scelte”, continua la professoressa: “Penso anzi che non sia da escludere che un governo di centrodestra, come quello di Sebastián Piñera, abbia la capacità di parlare alle élite del Paese. Serve mettere in chiaro che si è raggiunto un livello in cui o si fa qualcosa o tutto salta. E forse fare questo tipo di passaggio è più facile per Piñera, che è un multimilionario e rappresentata il conservatorismo, che per un governo di stampo diverso”.

Esiste un rischio propagazione, qualcosa che dal Cile possa allargarsi al quadro regionale? “C’è una rabbia sociale, qualcosa pronto a esplodere. Vediamo l’Ecuador e la Bolivia adesso, il Nicaragua negli anni passati, nel 2014 in Brasile. C’è un processo di imitazione sociale pericoloso, che con i social media viaggia alla velocità della luce. C’è la preoccupazione che possa allargarsi in Paesi di livello simile: si chiama trappola dei Paesi a medio reddito, succede quando un Paese è sufficientemente fuori dalle condizioni di povertà e i suoi cittadini iniziano a chiedere più welfare state”.



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