Secondo diverse fonti arrivate ai media statunitensi, ieri il comandante militare dei curdi siriani avrebbe detto apertamente agli ufficiali americani con cui ha contatto sul terreno che se gli Usa non aveva intenzione di far niente contro l’aggressione turca, lui aveva comunque “il dovere di difendere il suo popolo” e per questo sarebbe presto sceso a patti con il regime e con i russi.
Tolto il virgolettato romanzato, sta succedendo quanto previsto: l’operazione “Fonte di Pace” lanciata da Ankara sul nord della Siria sta prendendo di mira pesantemente i curdi, e nelle ultime ore la situazione s’è deteriorata. Tra le milizie che stanno combattendo per conto della Turchia ci sono anche gruppi estremisti filo-qaedisti ed è considerato molto possibile che possano attaccare i militari americani ancora presenti nella zona; ci sono stati diversi morti anche tra i civili e pare che sia stato colpito un convoglio di profughi con diverse vittime (forse anche alcuni giornalisti); la leader del partito curdo Siria Futura, Hevrin Khalef, è stata fermata lungo l’autostrada M4 e giustiziata dai miliziani filo-turchi; il campo di detenzione di Ain Issa è stato colpito dai turchi e tutti i detenuti, membri dell’Is catturati dai curdi negli anni scorsi sono fuggiti con le loro famiglie.
I curdi vogliono aiuto per difendersi davanti a un avversario nettamente superiore e determinato. La Russia ha un ruolo nella partita. Ieri Vladimir Putin ha intimato a “tutte le forze illegittime” di abbandonare la Siria. Una dichiarazione che spiega come Mosca — dopo aver salvato il regime dal tracollo — veda il suolo siriano alla stregua di un protettorato. La minaccia putiniana è contro le ambizioni turche, ma è giocata in modo ambiguo, se si considera che proprio la Russia — insieme agli Stati Uniti — ha bloccato una dichiarazione formale di condanna contro l’aggressione sul nord siriano.
Se i curdi realmente stringeranno un accordo con Russia e regime, allora la situazione entrerà in una fase ancora più complessa. A questo punto val la pena fare una rapida panoramica visto che le notizie dicono che i carri armati dell’esercito siriano potrebbero entrare a Kobane e Manbij nelle prossime 48 ore (le due città sono oggetto degli attacchi curdi).
Per Putin si creerà il problema di gestire contemporaneamente le mire di Erdogan e l’astio curdo; i diritti di Damasco, sovrano detentore di quel territorio, e l’impegno rinnovato al nord; il ruolo che sulla vicenda intenderá giocare un altro attore pesante in Siria: l’Iran, amico della Turchia, alleato pragmatico russo, sostenitore del regime. Di più: domani Putin è atteso in Arabia Saudita, che insieme agli Emirati ha guidato la cordata che dalla Lega Araba ha condannato l’attacco della Turchia.
In questo quadro complesso, l’annuncio del ritiro dalla Siria fatto una settimana fa dalla Casa Bianca — con cui Recep Tayyp Erdogan s’è sentito legittimato all’azione — oltre che una necessità elettorale (riportare in patria i soldati, come promesso) secondo quanto ribadito dal presidente Trump anche nelle ore passate, diventa una tattica funzionale. Serve a impantanare sia la Turchia, che con l’azione militare va incontro al passo più lungo della gamba, sia la Russia. Washington testa così le capacità e l’affidabilità di Mosca, ma la pone davanti a un complicato Tetris diplomatico e militare.
Oggi il Pentagono ha annunciato che a lasciare la Siria saranno mille militari. Donald Trump in due tweet ha spiegato che tra queste “guerre infinite” che coinvolgono quelle popolazioni (nel caso Turchia e curdi siriani e turchi), la cosa migliore è “let them!”.