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Emergenza Huawei. Così Trump vuole correre ai ripari

Corsa contro il tempo. Il governo americano vuole trovare il prima possibile un campione delle telecomunicazioni che possa far fronte alla sfida globale lanciata dalla cinese Huawei. L’azienda hi-tech con base a Shenzen, finita da due anni nel mirino di Stati Uniti e alleati con l’accusa di spionaggio e dipendenza dal governo comunista cinese, è tra i primi fornitori di tecnologia 5G al mondo.

IL PRIMATO CINESE NEL 5G

La banda larga è diventata il suo core-business.  Un primato che, spiega il Financial Times che cita fonti qualificate dell’amministrazione Trump, non sta bene neanche un po’ alla Casa Bianca. L’installazione e l’implementazione della rete di ultima generazione può infatti trasformarsi in un passpartout per accedere ai dati di infrastrutture strategiche del Paese. Una porta che il governo federale non ha alcuna intenzione di aprire ad aziende legate al Partito comunista cinese come Huawei o Zte.

Affrancarsi dalle aziende cinesi è più facile a dirsi che a farsi. Secondo la compagnia di ricerche Dell’Oro Huawei da sola vende il 28% dell’equipaggiamento nel mondo delle telecomunicazioni.  E un recente studio di Strategy Analytics prevede che per il 2023 la compagnia fondata dall’ex ufficiale dell’Esercito di liberazione popolare Ren Zhengfei coprirà il 24,8% della rete 5G mondiale, con un vantaggio di due punti sulle concorrenti nordeuropee.

CONCORRENZA SLEALE?

Più di una ragione si cela dietro al gap competitivo. La prima: la tecnologia 5G Huawei costa meno della concorrenza (secondo alcuni analisti il divario arriva a toccare punte del 30%). Complici le linee di credito multi-miliardarie e a lungo termine che le banche pubbliche cinesi concedono all’azienda e che hanno fatto la fortuna del settore (compresa quella di Zte, che nel 2009 ha ottenuto un credito di 15 miliardi di dollari dalla Banca di sviluppo cinese) una decina di anni fa, quando le distanze con le concorrenti europee sembravano incolmabili. La seconda: negli Stati Uniti ad oggi non esistono aziende in grado di competere con Huawei nella costruzione dell’equipaggiamento di accesso radio (Ran, radio network access) necessario a trasferire il segnale dai dispositivi telefonici alle torri che costruscono il network. La richiesta del governo ai campioni americani del settore come Oracle o Cisco di entrare in questo mercato, spiega il Ft, non ha trovato risposta positiva. Così i piccoli operatori rurali (o secondari) disseminati per il Paese si sono dovuti affidare alla tecnologia cinese.

IL PIANO DI CASA BIANCA E CONGRESSO

Due le soluzioni prospettate in queste settimane dall’amministrazione Trump per frenare l’avanzata di Huawei. Una è già stata posta al vaglio dei deputati. Due settimane fa la Commissione Energia e Commercio della Camera dei rappresentanti ha annunciato con un comunicato bipartisan una proposta di legge volta a stanziare un miliardo di dollari per gli operatori rurali con lo scopo di rimpiazzare la tecnologia di aziende cinesi come Huawei e Zte considerate un rischio per la sicurezza nazionale. Alla porta ci sono le principali competitor, Ericsson e Nokia in testa (quest’ultima una settimana fa ha ricevuto un endorsement pubblico dal presidente Usa durante un colloquio alla Casa Bianca con l’omologo finlandese Sauli Niinisto), pronte a offrire la loro tecnologia alle decine di pmi americane del settore costrette a rimuovere quella cinese. Una seconda soluzione, attualmente all’attenzione dell’amministrazione anche se non è chiaro se e come possa realizzarsi, è appunto garantire linee di credito delle banche americane alla concorrenza europea di Huawei.

HUAWEI QUASI A SECCO

Le grane per il colosso hi-tech cinese non finiscono qui. Su Huawei incombe ancora il bando con cui Trump a maggio ha decretato il divieto per le aziende americane di vendere tecnologia made in Usa alla competitor straniera. L’entrata in vigore del divieto è stata prorogata di tre mesi per ben due volte nel tentativo di ottenere una cruciale leva nei negoziati commerciali con Pechino. I danni collaterali derivanti dall’inclusione nella black list di maggio però già si contano. Come spiega il Washington Post, nei mesi precedenti al bando Huawei ha “furiosamente fatto scorta” di semiconduttori e altre componenti necessarie a costruire cellulari e l’equipaggiamento per la rete 5G acquistate da aziende americane. Alcune di queste, spiega Joe Madden dell’istituto di ricerche Mobile Experts, potrebbero terminare nel giro di un mese.

È il caso degli equipaggiamenti forniti a Huawei dalla Xilinx Inc., azienda californiense con base a San Jose. I chip della Xilinx sono particolarmente apprezzati dalle telco per la flessibilità con cui il software può essere sostituito anche dopo esser stato installato sulla torre. Da maggio l’azienda made in Usa ha allentato e poi fermato le vendite a Huawei. Che a fine novembre potrebbe finire a corto del suo equipaggiamento, costretta a sostituirlo e a perdere appeal sul mercato.

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