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Perché è lo ius naturae il principio vero della cittadinanza. L’opinione di Ippolito

Uno dei temi ricorrenti nel dibattito politico di questi anni è sicuramente la questione del diritto di cittadinanza. Si possono leggere analisi sociologiche in tal senso molto interessanti per scoprire come in diversi Paesi vi siano svariati criteri per stabilire e distinguere chi è cittadino di uno Stato da chi non lo è.
Dal punto di vista strettamente filosofico si deve riconoscere che il tipo di cittadinanza che una comunità è pronta a riconoscere agli stranieri è consequenziale alla definizione di comunità che adotta: quest’ultima, infatti, è il reale fondamento dello Stato, essendo lo Stato il corpo giuridico limitato di una certa fetta di umanità che chiamiamo nazione.

Ora, è logico che il concetto di cittadinanza implichi necessariamente l’individuazione non arbitraria o artificiosa dell’identità oggettiva propria di una parte specifica di esseri umani. Una cittadinanza universale non solo sarebbe contraddittoria, ma costituirebbe un’implicita ammissione di razzismo etnico. I Nazisti, non a caso, identificavano in modo criminale cittadinanza, etnia germanica e umanità, eliminando la dignità umana da tutti coloro che non erano tedeschi e che pertanto non erano considerati persone. Viceversa, al fine di rispettare le differenze tra i popoli e le tradizioni, salvaguardando l’universalità vera dei diritti umani, riguardanti cioè tutti coloro che sono persone (individui che appartengono alla specie umana nella sua generalità), è fondamentale scindere la cittadinanza specifica dall’umanità generica.
Sono cittadini di uno Stato solo coloro che appartengono ad una certa, determinata e particolare comunità. Il principio, dunque, di cittadinanza è naturale e storico al contempo: naturale, perché si è italiani in quanto figli di italiani; storico, perché gli italiani sono tali non per un carattere etnico (che non esiste), ma perché condividono un’appartenenza identitaria nel passaggio generazionale, un insieme di mentalità, lingua, costume, valori, eccetera.
È questa la ragione per la quale risulta evidente che la cittadinanza, l’essere cittadini, coincide con la nazione, ossia con l’insieme di coloro che attualmente sono comunità italiana, in virtù di un passato e di un presente comune.

Davanti agli stranieri immigrati si pone così il problema se e in che misura la cittadinanza possa essere data a persone di altre culture. I criteri sono mobili, ma selettivi per definizione, sulla base cioè della legittimità a difendere, tra i diritti universali propri di ogni essere umano, anche i diritti propri e peculiari di una comunità che deve essere se stessa e deve perseverare nella propria essenza nazionale.
Vi sono, in sintesi, tre parametri per stabilire il conferimento di cittadinanza. Il primo è di natura materiale e locativa: chi nasce nel territorio di uno Stato è automaticamente cittadino. Si tratta di un metodo antico, il quale tuttavia non è valido di per sé, perché affida l’appartenenza ad una comunità ad un composto secondario che è il luogo e non ad un portato primario di integrazione, costituito dall’educazione che la famiglia impartisce ad una persona. Se, ad esempio, due genitori di nazionalità, religione e cultura straniera generano un figlio in uno Stato che ha questo tipo di legislazione, divengono automaticamente cittadini tutti e tre: è infatti impossibile che prole e genitori abbiano diritti dissociati, se i piccoli sono minorenni. La nascita però da sola non garantisce l’integrazione. L’integrazione è un risultato culturale più complesso. Si può perciò accettare lo ius soli unicamente se si pensa ad una cittadinanza plurale, parametro, quest’ultimo, valido solo in una certa misura e mai in assoluto. Pensiamo alla poligamia o al maschilismo o alla violenza sui bambini. Nascere in un contesto familiare privato in cui valgono disvalori simili non è compatibile con essere cittadini italiani. In uno Stato, per contro, possono convivere cittadini e stranieri che non condividono i principi etici costituitivi di una nazione, senza che quest’ultimi però abbiano la cittadinanza e vedano minati i loro diritti umani universali. Non solo non è necessario dare cittadinanza per riconoscere diritti umani, ma i primi sono diversi dai secondi. Pensare di confondere i piani significa o voler distruggere l’identità di una comunità oppure essere fondamentalisti della propria cittadinanza, credendo che essa sia universale e superiore alle altre, quando invece, come si è detto, la cittadinanza è solo particolare ad alcuni esseri umani e specifica di una singola civiltà diversa dalle altre.

La seconda strada è quella dello ius culturae. Qui il problema è spostato nell’ambito del tempo, ma non modificato quanto all’essenza. In questo caso, infatti, non basta nascere, ma bisogna aver vissuto e ricevuto una certa istruzione per poter ricevere ad una età stabilita la cittadinanza. I criteri valoriali, in questo contesto, sono migliori, ma non sufficienti. Al diciottesimo anno si riproporrebbe la stessa difficoltà di prima, con la speciosa complessità di una doppia cittadinanza per i richiedenti, non sempre riconosciuta nei loro Paesi di origine. Sarebbe assurdo che, dopo gli esodati, comparissero nel futuro anche gli apolidi, ossia persone senza più la cittadinanza di origine.

L’unico modo per risolvere a dovere la questione è partire dal concetto fondamentale di natura. Aristotele, nella Fisica, spiega che “per natura s’intende la causa interna dell’essere di un vivente”. Con questa affermazione lo Stagirita intende dare suggerimenti anche per il nostro problema: una persona, infatti, è e diviene se stessa grazie non solo alla generazione ma all’azione educativa dei genitori. Essi inseriscono gradualmente i figli nella vita e nella comunità, trasferendogli la cittadinanza, i valori, i doveri e anche la mentalità che posseggono.
Dissociare cittadinanza da famiglia e famiglia da natura è, in effetti, assurdo e sbagliato, poiché risulta contrario proprio alla natura umana così com’essa è fatta.
Noi abbiamo acquisito da secoli la sicurezza della nostra cittadinanza italiana, ossia la solidità di una convivenza pacifica tra noi connazionali. Non dimentichiamoci che però questo status non è irreversibile e richiede di essere mantenuto, preservato e conservato. Esistono infatti anche le guerre civili o i conflitti tra abitanti di uno stesso Stato. Paesi come la Libia, ad esempio, mostrano in modo lampante che cosa succede ad una società quando vi è una pluralità di gruppi nazionali confliggenti. L’esempio potrebbe essere facilmente allargato a tantissimi altri Stati che subiscono stravolgimenti sempre più diffusi nel mondo a causa della globalizzazione.
Bisogna vigilare che i diritti umani universali siano garantiti a tutti nel nostro Stato, conservando gelosamente la sostanza nazionale che costituisce il principio della trasmissione e la causa del mantenimento intergenerazionale della nostra cittadinanza pacifica. Tommaso d’Aquino, non a caso, affermava che la pace di una comunità è il fine principale di chi governa, proprio perché essa può essere perduta più facilmente di quanto si pensi.

In conclusione, soltanto lo ius naturae è il principio vero della cittadinanza, perché unicamente chi ha la cittadinanza può darla e tramandarla, accrescendo e mantenendo in vita una nazione nella sua identità permanente, veicolata dalla famiglia. La persona eredita, infatti, la nazionalità e la cittadinanza dalla famiglia nella quale nasce. Sostituire a questo unico criterio oggettivo, parametri legati al multiculturalismo o alla semplice territorialità del nascere è una follia, come è una follia modificare abitudini popolari che da sempre scandiscono i tempi e i modi dello stare assieme di una nazione, imponendo il relativismo.
Il senso di una comunità sta nel tempo con cui pian piano si realizza il suo essere popolo e il suo avere una certa mentalità condivisa. Manipolarne l’essenza è come voler alterare il modo in cui i figli nascono da un padre e una madre, nonché la struttura antropologica originaria ed archetipa della società naturale, la quale sta al fondo dell’etica giuridica, culturale e antropologica universale dell’Occidente.
Tutto questo voler affannosamente rivoluzionare l’uomo nel suo essere, distruggendo la sostanza individuale, familiare e nazionale della persona, è una terribile minaccia per l’Europa, aggravata dal fatto che nessuno sembra ricordare la violenza generata in passato da altre dannose idee di cittadinanza, concepite surrettiziamente senza valutare le giuste proporzioni, distinzioni e differenze che posseggono tutti i viventi per loro stessa natura.

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