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L’ultima mossa di Draghi

Abbiamo già messo in evidenza come il rilancio del quantitative easing da parte di Draghi fosse un segnale preoccupante: il segnale di un’analisi negativa sulle prospettive di ripresa dell’asfittica crescita europea (rispetto al resto del mondo) e di sfiducia nella capacità (e volontà) dei governi di riformare la governance economica europea per aumentarne la resilienza ad una eventuale futura crisi. In questi ultimi giorni si sono però moltiplicati gl’interventi, autorevoli, che ne mettono in discussione sia l’analisi, sia la ratio, e conseguentemente la scelta di politica monetaria. Occorre quindi riprendere il tema. Non tanto per dar ragione a Draghi, ma per dar torto ad alcune delle critiche che gli sono state mosse, che si rivelano ideologicamente tendenziose, quanto e più della manovra di Draghi.

Il 4 ottobre, sei ex banchieri centrali dell’area euro ed ex membri del Comitato Esecutivo della Bce hanno scritto un Memorandum contro la politica monetaria espansiva di Draghi. Al documento ha fatto eco Daniel Gros su Project Syndicate del 7 ottobre. La tesi (un po’ tardiva, per la verità) mette in discussione il target del 2% d’inflazione scelto dalla Bce. In sostanza: lo statuto della Bce le impone di badare alla stabilità dei prezzi, non ad un obiettivo numerico preciso. La scelta del 2% è tutta interna alla Bce, che l’ha liberamente scelto (ma l’ha fatto all’inizio del suo mandato, nel 1998, quando l’inflazione media in Europa era ben più elevata di oggi). E in nome di quel target sta espandendo la quantità di moneta, ben sapendo che quel livello non verrà mai più raggiunto. Si tratterebbe, in sostanza, di un obiettivo strumentale a giustificare un’espansione monetaria.

Verrebbe da rispondere: e allora? Ogni banca centrale si pone un target d’inflazione. E cerca di mantenerlo, qualunque esso sia. Il suo statuto le impone la stabilità dei prezzi, non la stabilità degli aggregati monetari. E non c’è dubbio che i prezzi siano stabili nell’eurozona. Se lo siano grazie all’espansione monetaria (che contrasta al rialzo le pressioni al ribasso della domanda interna) o ad altri fattori è certo una questione rilevante. Ma non cambia la sostanziale stabilità dei prezzi, che è l’obiettivo di policy della Bce.

È vero che la trappola della liquidità, le incertezze nel mondo bancario, la crisi sistemica di fiducia nei confronti della direzione che prenderà (o meno) il progetto d’integrazione europea rischiano di vanificare sul lato reale l’espansione monetaria, finendo per ridurne gli effetti all’alleggerimento del vincolo di bilancio nei singoli paesi. Lo abbiamo già evidenziato anche noi nell’ultimo articolo.

Ma questo dipende da tre fattori, che non hanno nulla a che fare con le scelte della Bce e molto invece con la difesa dei (presunti) interessi nazionali di cui sono portatori i paesi dei firmatari del documento.

Primo: come continua a ripetere Draghi, la politica monetaria non basta. Fino a quando non sarà completata in maniera credibile ed efficace la struttura della governance economica e politica della UE, a cominciare da una politica fiscale sovranazionale (democraticamente legittimata) è impossibile che l’economia si riprenda, soprattutto in maniera simmetrica. La politica espansiva mira a segnalare agli Stati che è urgente questo passaggio, senza il quale la politica accomodante è essenziale. Come dire (ai governi): o realizzate un’unione fiscale o sono costretto a continuare con la politica monetaria espansiva.

Due: le tensioni sociali innescate da una redistribuzione dei redditi a favore dei possessori di asset reali (che gli contestano i Sei) sono assolutamente fittizie! Niente vieta ai ricchi possessori di risparmio liquido tedeschi e olandesi di acquistare asset immobiliari in Grecia o in Italia (cosa che, tra l’altro, fanno regolarmente e sistematicamente e farebbero ancora di più se non vi fossero le incertezze politiche sui rischi di rottura dell’euro), o anche nei loro paesi. E comunque esistono asset e mercati alternativi sui quali investire. Il risparmio tenuto nei conti correnti è sintomo di sfiducia, non di virtù. Lo sarebbe se le banche lo tramutassero immediatamente in credito erogato per sostenere le attività reali; cosa che non fanno. La liquidità delle banche è già enorme, grazie alla politica monetaria espansiva di Draghi e non è certo quella la strozzatura che impedisce gl’investimenti. Che invece dipendono dalle aspettative. Ed è qui il punto debole. Le banche non mettono in circolazione il denaro perché non si fidano delle imprese (e delle famiglie), le quali a loro volta non investono (e non comprano) perché si aspettano una domanda bassa e vedono incertezze normative e politiche (nazionali), istituzionali (europee) e globali (guerra dei dazi). Il che ci riporta all’urgenza di affrontare una riforma della governance economica e politica europea in grado di darle un assetto coeso, non frammentato, coerente con le sfide interne ed internazionali.

Tre: gli squilibri nell’area euro non possono essere risolti in maniera asimmetrica. L’onere dell’aggiustamento non può gravare solo sui paesi in deficit, ma anche su quelli in surplus. Un surplus non è sintomo di virtù; ma dell’incapacità di spendere. La Germania (e in generale i paesi nordici) deve espandere la propria politica fiscale, a tutti i livelli di governo. Per aiutare la risoluzione degli squilibri macroeconomici in Europa e per far fronte alle pressanti richieste dei suoi cittadini che richiedono ammodernamenti e servizi ormai fermi da decenni. Ancora una volta sono i paesi membri, piuttosto che la Bce, a dover cambiare orientamento.

Può darsi, come abbiamo già sottolineato, che una politica monetaria nuovamente espansiva non serva all’economia reale. Ma, in mancanza di meglio, ossia di un bilancio collettivo europeo a fini di stabilizzazione e redistribuzione del reddito in caso di shock asimmetrici e per far ripartire gl’investimenti e la crescita in maniera equilibrata, è l’unica alternativa oggi disponibile nell’area euro.


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