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C’è paura tra gli italiani, ma l’establishment parla d’altro. L’analisi di Arditti

C’era una volta Mafia Capitale. Dopo la sentenza della Cassazione va in scena il solito derby tra chi gongola dicendo “ve lo avevo detto” e chi invece grida allo scandalo. Un dibattito che appassiona e divide l’establishment scatenando una surreale e, in parte, cavillosa contesa sulla presenza di una “cupola” (non quella di San Pietro) a Roma.

Se sussiste o meno l’aggravante del 416-bis è senza dubbio una questione che ha una sua rilevanza: formale, perché le etichette contano (specialmente per il sistema mediatico), sostanziale, perché le pene degli imputati saranno riviste. Ma resta il fatto che non siamo di fronte a vittime innocenti di malagiustizia (come purtroppo talvolta accade), bensì ad una associazione a delinquere che per anni ha agito indisturbata.

C’è però un aspetto ulteriore. Se infatti spostiamo il punto di osservazione dai “palazzi” alla società, le preoccupazioni in tema di criminalità sembrano assumere un tono ben diverso da quello delle pagine dei giornali di questi giorni.

È una rilevazione di SWG a mostrarci l’inquietudine del Paese sulla lotta al malaffare. Se per la maggioranza dei cittadini (57%) lo Stato è ancora in grado di porre dei limiti al crimine, c’è invece una folta minoranza (43%) che sostiene di essere giunti a un punto di non ritorno.

La preoccupazione dunque non è se il crimine si chiami o meno mafia, ma se le istituzioni abbiano gli strumenti per fermarlo.

Emerge così un profondo sentimento di impotenza e frustrazione condiviso da quasi la metà degli italiani. Un dato che certifica ancora una volta la distanza siderale tra i cittadini rassegnati e un establishment troppo spesso prigioniero di dispute autoreferenziali.

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