Ci sono almeno quattro ragioni principali che possono aver quanto meno contribuito a far maturare la scelta, all’interno della Casa Bianca, del tramonto dell’interventismo umanitario e dell’operazione “Primavera di Pace”.
La prima è che il ritiro dal Rojava non solo si trova in linea di continuità con la promessa trumpiana dell’America first, da rispettare sempre più rigorosamente nell’anno che precede le presidenziali 2020, ma lo è ancor di più con la politica del retrenchment avviata da Barack Obama e poi proseguita dal suo – sgradito, ma in questo caso fedele – successore. Entrambi i presidenti, d’altronde, non hanno attribuito al Medio Oriente un ruolo strategicamente vitale per il mantenimento del primato internazionale degli Stati Uniti, a causa delle conseguenze negative sul prestigio americano delle politiche nell’area dell’Amministrazione Bush, per la diminuita importanza delle sue risorse energetiche per la domanda interna del Paese e, soprattutto, per la necessità di riorientare gli sforzi verso il contenimento della crescente minaccia cinese. La stessa Amministrazione Obama, d’altronde, aveva ritirato i soldati dall’Iraq nel 2011 e aveva preferito non reagire all’utilizzo delle armi chimiche da parte del governo siriano nel 2013 nonostante fosse stata presentata come una red line dalla Casa Bianca poco meno di un anno prima.
La seconda ragione è strettamente legata alla prima. L’Amministrazione Trump vuole rilanciare l’idea obamiana del leading from behind. La necessità di attuare il taglio della spesa per evitare la “sovra-estensione imperiale”, infatti, impone agli Stati Uniti di responsabilizzare gli alleati rispetto ai problemi di sicurezza che affliggono la loro regione (in Medio Oriente, così come in Europa), riducendo così i costi gravanti sul bilancio americano. In tal senso, gli Stati Uniti sostengono una politica più attiva dell’alleanza sunnita guidata dall’Arabia Saudita e che si riunisce nel Consiglio di Cooperazione del Golfo, con l’appoggio esterno – e quanto più possibile invisibile – di Israele, per ottenere l’obiettivo comune del contenimento della minaccia iraniana.
Il terzo fattore che ha incentivato la scelta di Trump è la possibilità di minare le fragilissime basi su cui da qualche tempo si regge l’inedita intesa tra Turchia, Iran e Russia. L’assenza degli americani dalla Siria permetterà alle loro truppe regolari o ai loro proxy di entrare direttamente in contatto, facendo diventare realtà il rischio di uno scontro tra attori che hanno obiettivi che si escludono mutuamente. La Russia è alla ricerca di uno Stato-vassallo che ne garantisca l’accesso ai mari caldi, in cambio della sua protezione e, quindi, dell’integrità territoriale. L’Iran vuole una Siria da utilizzare come base logistica nel cuore del Medio Oriente per colpire i suoi nemici, da Israele all’Arabia Saudita, passando ai partiti anti-sciiti in Libano e Iraq. La Turchia, dal canto suo, vuole uno Stato debole nel suo confine meridionale, all’interno del quale essere libera di realizzare azioni di polizia internazionale contro partiti e organizzazioni armate curde e dove re-insediare masse di ex-profughi fidelizzati da mobilitare quando necessario contro Damasco.
Infine, la quarta ragione è legata ai rapporti bilaterali tra Washington e Ankara. Il progressivo avvicinamento turco alla Russia, culminato con l’acquisto dei missili S-400, alla lunga non poteva essere lasciato impunito. Il ritiro delle truppe americane del Rojava, in questa prospettiva, potrebbe essere stato sfruttato alla stregua di un’esca, per indurre la Turchia a compiere un’azione che le ha attirato strali in tutto il mondo e ne ha delegittimato l’immagine. Se Ankara non procederà a un veloce riallineamento con Washington, la pistola fumante che si trova ora in mano potrebbe essere utilizzata per giustificare sanzioni o misure ancor più gravi nei suoi confronti nei principali consessi internazionali a cui partecipa.
(analisi tratta dal sito web Geopolitica.info)