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Il Movimento (5S) nel suo labirinto

José Palacios, il suo domestico più antico, lo trovò che galleggiava sulle acque depurative della vasca da bagno, nudo e con gli occhi aperti, e credette che fosse annegato. Sapeva che era uno dei suoi molti sistemi per meditare, ma lo stato di estasi in cui giaceva alla deriva sembrava quello di chi non appartiene più a questo mondo. Non si azzardò ad avvicinarsi, ma lo chiamò con voce sorda secondo l’ordine di svegliarlo quando non fossero ancora le cinque per mettersi in marcia alle prime luci. Il generale emerse dalla malia, e vide nella penombra gli occhi azzurri e diafani, i capelli crespi color scoiattolo, la maestà impavida del suo maggiordomo di tutti i giorni che reggeva in mano la ciotola dell’infuso di papavero con gomma arabica. Il generale strinse senza forza le anse della vasca da bagno, ed emerse dalle acque medicinali in uno slancio da delfino che non ci si sarebbe aspettati da un corpo così infiacchito. “Andiamocene” disse. “Di fretta, che qui non ci vuole nessuno”.

Ecco un passaggio del maestoso e malinconico capolavoro che Gabriel Garcia Marquez dedica a Simon Bolivar, ricordandone gli anni finali della sua vita, anni di solitudine e amarezza dopo aver liberato dal dominio spagnolo mezzo Sud America. Un libro che dovrebbero leggere un po’ tutti i dirigenti del M5S (Il Generale nel suo labirinto, 1989, Mondadori), perché ne trarrebbero lezioni utili anche per il presente.

Già perché è del tutto evidente che siamo a un momento di crisi talmente profonda da apparire irreversibile, momento reso plasticamente riconoscibile dalla parole del capo politico Di Maio dopo l’esito del voto in Umbria.

Riavvolgiamo un poco il nastro, così da vedere gli ultimi fatti in sequenza.

Il M5S a fine agosto abbandona il governo gialloverde (anche per volontà di Salvini) ma si oppone al ritorno alle urne invocato dal leader della Lega. Inizia rapide consultazioni con il Pd e trova in pochi giorni un accordo per varare il Conte bis, in piena sintonia con il voto espresso il 16 luglio a Strasburgo per eleggere Ursula von der Leyen alla guida dell’Unione europea, voto su cui convergono grillini e italiani di Pse e Ppe ma non leghisti ed eletti di Fratelli d’Italia.

A fine settembre poi Pd e M5S trovano anche (con tanto di voto sulla piattaforma Rousseau) un candidato comune per le regionali dell’Umbria, rendendo così ancora più “strategica” un’alleanza ormai capace di essere tale in Europa, a livello nazionale e, a quel punto, anche in ambito locale. Operazione non poco coraggiosa, se si pensa tra l’altro che la neonata coalizione giallorossa parte sfavorita nel voto umbro, anche a causa dello scandalo giudiziario che ha fatto franare la giunta di sinistra (peraltro provocato da una denuncia partita proprio dal M5S).

Finisce con il trionfo di Salvini e, dall’altra parte, con la tenuta dignitosa del Pd e il crollo del Movimento, che scende ad un misero 7,4% (metà dei voti presi alle europee di quest’anno e un quarto di quelli delle politiche 2018). A poche ore dal voto però arriva il brusco dietrofront del capo politico Di Maio, che annuncia la fine di ogni alleanza locale con il Pd e proclama la corsa solitaria per i prossimi appuntamenti, Calabria e Emilia Romagna in particolare.

Un atteggiamento decisamente poco lucido direi, privo di logica politica per almeno tre motivi.

Primo: non si capisce perché il M5S si allea con il Pd per l’Umbria (sconfitta quasi certa) e non lo fa per l’Emilia Romagna (vittoria possibile). Fino a prova contraria alle elezioni si partecipa per vincere. Secondo: l’alleanza con il Pd rimane a Roma e Bruxelles, quindi è comunque un’intesa politica di prima grandezza evidente agli elettori ed ai militanti, con tutto ciò che ne consegue (nel bene e nel male). Terzo: la rottura sul nascere del patto a livello locale esaspera i rapporti nella coalizione di governo e rende i compagni di strada (Renzi in primis, ma ovviamente anche il Pd) molto meno disponibili a seguire le indicazione grilline (come invece accaduto senza batter ciglio per il voto finale sulla riduzione dei parlamentari).

Insomma una cosa è certa: la retromarcia sulle alleanze locali è mossa azzardata e figlia di uno stato d’ansia e delusione che serve solo ad andare incontro a nuovi dispiaceri elettorali.

Il Movimento si guardi allo specchio se vuole risalire la china, valutando con rigore quanto fatto dopo le elezioni del 2018. Abbaiare alla luna non serve. Anche se, lì per lì, può farti sentire lupo.

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