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Così Italia, Tunisia e Libano combattono l’emergenza plastica nel Mediterraneo

Si chiama Common (COastal Management and MOnitoring Network) il progetto finanziato dall’Unione europea con 2,2 milioni di euro e presentato oggi a Roma, che intende costruire una rete di collaborazione fra Italia, Tunisia e Libano per favorire la riduzione dei rifiuti marini nel Mediterraneo, un mare tra i più ricchi di biodiversità ma anche la terza area nel mondo per accumulo di rifiuti, soprattutto di plastiche. Secondo i dati raccolti l’estate scorsa da Goletta Verde di Legambiente, oltre il 99% dei rifiuti analizzati è costituito da materiali plastici, la maggior parte pezzi di plastica non identificabili (oltre il 70%); poi teli e fogli di plastica, cassette in polistirolo, bottiglie, reti e fili.

“Il problema dei rifiuti in mare”, ha commentato Serena Carpentieri, vicedirettrice di Legambiente, “rappresenta una delle sfide più complesse del Mediterraneo. Non si tratta solo di un problema ambientale legato agli enormi danni alla biodiversità e all’ecosistema, ma anche in un problema economico che ha ripercussioni sulle attività produttive, dal turismo alla pesca. Il progetto Common si pone l’obiettivo di studiare modelli di governance efficaci per fronteggiare questo problema”. Oltre a Legambiente, il progetto vede coinvolti l’Università di Siena, l’Istituto Nazionale di Scienze e Tecnologie del Mare di Tunisi, la riserva naturale di Tyre in Libano. L’obiettivo comune è la riduzione del marine litter, utilizzando i principi della Gestione Integrata delle Zone Costiere in 5 aree pilota, con il coinvolgimento anche delle comunità locali, “con l’ambizione di testare un modello potenzialmente trasferibile a tutto il bacino del Mediterraneo”. Le cinque aree coinvolte sono due in Italia (Maremma e Puglia), due in Tunisia (Isole Kuriate e Monastir), una in Libano (riserva naturale di Tyre).

“L’ingestione di micro-plastiche è stata documentata per 76 specie mediterranei, tra cui pesci e tartarughe marine, ha detto Maria Cristina Fossi, dell’Università di Siena. La crescente urgenza delle sfide sociali interconnesse richiede che vengano affrontate attraverso il rafforzamento della collaborazione tra scienza, politica e società. L’impatto dei rifiuti ingeriti dagli organismi marini dovrebbe essere valutato attraverso un monitoraggio integrato, sia sulle specie commerciali che in quelle protette”.
Non si tratta solo di micro-plastiche (frammenti di dimensioni inferiori a 5 millimetri), ha sottolineato Mohamed Banni, dell’Università di Sousse (Tunisia), ma di nanoplastiche, “veri e propri cavalli di Troia, che attraverso le cellule provocano la formazione di batteri con effetti tossicologici tutti da scoprire”. Un recente studio tunisino ha evidenziato, per la prima volta, la presenza e l’accumulo di microplastiche nei tratti gastrointestinali e nei muscoli del pesce Serranus scriba, comunemente conosciuto come “sciarrano” o “boccaccia”, una tra le specie di pesce più consumata in Tunisia.

Non dobbiamo dimenticare il grosso divario che esiste nella gestione dei rifiuti tra la sponda nord e quella sud del Mediterraneo. Se i Paesi europei hanno raggiunto livelli ragguardevoli di recupero e riciclo, anche su impulso delle nuove direttive approvate a Bruxelles, a cominciare da quella storica sul bando delle buste di plastica fino alla riduzione della plastica monouso e quelle contenute nel cosiddetto Pacchetto sull’economia circolare, Libano e Tunisia si trovano ad affrontare grandi difficoltà nei sistemi di raccolta e gestione dei rifiuti, che porta all’incremento del marine litter. Sebbene la Tunisia non sia un grande produttore di plastica (25 mila tonnellate prodotte nel 2016), tuttavia solo il 4% si stima venga riciclato. Non va meglio in Libano, dove l’85% dei rifiuti prodotti viene smaltito in discarica senza alcun trattamento.


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