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Quali sono (e a che cosa mirano) le potenze che si muovono nel Mediterraneo

Di Manuel Minuto Moreno

“Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre.”  In queste parole efficacemente coniate da Fernand Braudel oltre un trentennio fa, è racchiusa la complessità del più antico “bacino strategico” sul quale si sono sovrapposte le vicende delle grandi superpotenze di ogni epoca. Il Mare Nostrum, infatti, a meno dei circa tre secoli compresi tra l’Età delle Scoperte e l’apertura del Canale di Suez, è da sempre la principale scacchiera dove si sono affrontate a viso aperto le flotte – mercantili e militari – degli Stati di maggior peso sulla scena mondiale, dall’Impero Romano fino agli odierni Stati Uniti. Un confronto continuo, e spesso aspro, rispondente alle logiche del Potere e della Strategia Marittima le cui peculiarità sono a volte poco approfondite dall’analisi geopolitica, che tende a focalizzarsi sui fenomeni più evidenti in terraferma. Un recente esempio di questo preconcetto è evidenziato dal peso rivolto dalla stampa specializzata alla pericolosa escalation in corso nell’Est Mediterraneo, e che ruota intorno ai giacimenti di idrocarburi al largo dell’isola di Cipro.

L’evidente necessità di un linguaggio comune impone però la definizione di una terminologia adeguata. Con Potere Marittimo (Seapower) di uno Stato (o di un’alleanza) si intende la possibilità di impiegare il Mare nella sua interezza attraverso gli strumenti della politica, dell’economia, della diplomazia e non ultimo delle forze da guerra. La sola componente “militare” del Seapower è definita invece dal termine di Potere Navale (Naval Power) che racchiude in sé le capacità esprimibili dalle Marine Militari, ed in parte delle Guardie Costiere. La Strategia Marittima (Maritime Strategy) di una qualsiasi entità statuale è quindi rivolta al mantenimento – o rafforzamento del Seapower attraverso la ricerca di un’azione sinergica tra tutte le sue componenti siano esse industriali (es. cantieristica), tecnologiche (es. posizionamento satellitare), scientifiche (es. ricerche idrografiche sui fondali), economiche (commercio marittimo e pesca) ed ovviamente militari per gli aspetti di deterrenza e sicurezza. In Mediterraneo, ma anche nelle aree limitrofe al bacino (il cd Mediterraneo Allargato), si sovrappongono le “Strategie Marittime” di numerosi attori globali e regionali, i cui interessi, al di là dei formalismi diplomatici sono spesso stridenti.

Il Mediterraneo nel suo complesso può essere inquadrato in quattro macroaree di analisi da Gibilterra verso Suez. I tre paesi della sponda meridionale, nell’arco che va dal Marocco a Gibuti, passando per l’Egitto rappresentano la fascia strategicamente più debole del bacino. I loro principali interessi, pur con diverse sfaccettature, abbracciano la fascia marittima costiera e le connesse attività che vanno dalla pesca locale, alla difesa degli interessi doganali fino alla protezione delle risorse del settore idrocarburi. Questi paesi in genere non sono in grado di esprimere forme di strategia marittima particolarmente articolate, mancando di alcune componenti essenziali, ma impiegano lo strumento del Naval Power per esprimere forme di deterrenza verso i propri vicini, ed accreditarsi quali interlocutori verso le potenze globali (Usa, Russia, Cina). Questo tendenza è evidenziata dalla grande attenzione rivolta da queste nazioni all’uso dei sottomarini convenzionali – tipico strumento di minaccia – a scapito di altre piattaforme militari. Lungo l’arco balcanico dell’Adriatico troviamo una situazione simile, in cui i principali interessi strategici di Slovenia, Croazia, Bosnia, Montenegro ed Albania sono rivolti alla protezione degli interessi economici della fascia costiera (pesca ed idrocarburi) e non vedono nessuna specifica ambizione al di fuori del bacino. Lungo l’arco settentrionale del Mediterraneo, la scena è dominata da quattro paesi che pur se profondamente diversi tra loro condividono tra loro la necessità di un esteso e continuativo uso del mare: Inghilterra (attraverso Gibilterra), Spagna, Francia ed Italia.  Questi paesi, pur con magnitudo diverse, possiedono tutti gli elementi costituitivi del Seapower e vedono soprapporsi agli interessi nazionali, quelli delle alleanze politiche che li raggruppano e rappresentano, ovvero Nato ed Unione Europea (almeno fino alla Brexit.). Uno schema spesso di difficile lettura, ma che nell’ultimo quinquennio ha visto in più occasioni prevalere gli interessi politici nazionali a scapito del coordinamento internazionale.

La strategia marittima dell’Alleanza Atlantica elaborata nel 2011 ha i suoi cardini principali nella Difesa Collettiva (art. 5), la gestione delle crisi, la sicurezza cooperativa (dialogo Mediterraneo) ed una robusta sicurezza marittima. Questi obiettivi di medio/lungo termine sono costruiti attraverso l’impiego del Naval Power con funzioni di Deterrenza (ad esempio nel contrasto ai missili balistici) e Difesa che includono ovviamente una credibile postura verso le operazioni cinetiche. L’Alleanza Atlantica vede in sostanza i Mari (ed in particolare il Mare Nostrum), quali corridoio strategico attraverso i quali veicolare le capacità militari degli stati membri, ed assicurare attraverso le operazioni di sicurezza marittima il benessere economico dei suoi membri. L’Unione Europea, ha approvato nel giugno 2014 la European Union Maritime Security Strategy. Il documento, si presenta come una raffinata policy strategica a 360° che analizza nel dettaglio gli interessi marittimi dell’Unione enfatizzando il rapporto tra sicurezza marittima (safe, secure and clean seas), stabilità ed il benessere globale (prosperity and peace). Il testo pone particolare attenzione alla protezione del regime di Rule of Law internazionale (ovvero uso legale del mare) quale requisito essenziale per la protezione degli interessi marittimi della Ue: sicurezza e stabilità internazionale, controllo delle frontiere, sviluppo e protezione delle infrastrutture marittime, conservazione delle risorse naturali e preparazione al cambiamento climatico. Il documento è stato seguito nel 2014 e 2018 da un articolato Action Plan, che con un approccio di cooperazione tra le diverse agenzie europee e di apertura e dialogo multilaterale verso tutti gli attori regionali e globali (Nato in primis) cerca di mettere a sistema tutti interessi dell’Unione.

L’arco orientale del Mediterraneo che spazia dalla Grecia, alla Turchia fino ad Israele, vede anche in questo caso la presenza di nazioni sostanzialmente diverse tra loro, ma accomunate da una profondità strategica non paragonabile a quelle della citata sponda settentrionale. Gli interessi marittimi sono ovviamente rivolti alla protezione delle risorse sottomarine di idrocarburi, ma non va dimenticata l’esigenza di un ferreo controllo sulle frontiere marittime messe sotto pressione dai fenomeni migratori provenienti dalla Siria e dall’Asia. Per quel che concerne Israele e Turchia l’uso del mare è inoltre condizione essenziale per la deterrenza strategica (basta guardare al numero e capacità belliche dei sottomarini in servizio) in un contesto dove entrambi i paesi hanno più nemici che alleati.

Le potenze globali Usa, Russia, e più recentemente Cina, sono tutte presenti nel Mediterraneo, dove perseguono agende ed interessi piuttosto diversificati. La presenza americana nel Mare Nostrum è una delle costanti strategiche del bacino dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ed è storicamente volta a mantenere il regime di libero uso del mare per fini commerciali, ed al “contenimento” delle forze convenzionali marittime e terrestri di Mosca (un tempo del Patto di Varsavia). Un blocco perseguito attraverso una capillare presenza economica, diplomatica e militare, il cui eponimo è rappresentato dal decennale dispiegamento della VI Fleet. Il presidio americano (e Nato) del Mare Nostrum ha garantito per decenni grande stabilità al bacino, i cui unici turbamenti significativi sono riconducibili all’irrisolto conflitto tra Israele ed il mondo arabo, flemmatizzato in più occasione dall’energica azione di Washington. La presenza russa in Mediterraneo al pari di quella statunitense è una delle costanti del bacino Mediterraneo ed in particolare della porzione meridionale ed orientale dove ha principalmente operato la V Eskadra di Mosca e la flotta mercantile di Stato. Dopo il declino post Guerra Fredda, nel 2013 la Russia ha riattivato un Gruppo Navale Mediterraneo basato principalmente sulle unità di stanza in mare Nero, rafforzate da quelle in rotazione presso la base siriana di Tartous. Gli obiettivi strategici russi non sono di fatto cambiati dai tempi dell’ex-Urss e si concentrano sulla limitazione degli spazi di manovra della Nato, attraverso una continua presenza in mare nei bacini di maggior interesse, ed in particolare nelle acque costiere dei paesi alleati. Questa postura vede nei sei sottomarini convenzionali classe Varshavyanka uno dei suoi maggiori punti di forza, a corredo di una corposa presenza di unità di superficie lanciamissili e batterie costiere di difesa aerea sparse lungo la Siria. La Strategia Marittima russa, che vede nel Mediterraneo uno dei suoi pochi sbocchi, tuttavia non si ferma ad una muscolare esibizione di Naval Power, ma passa attraverso una estesa rete di contratti per forniture militari volti a fidelizzare ed affiliare il maggior numero di paesi del bacino. L’ultima potenza affacciatasi recentemente in Mediterraneo e nei suoi dintorni è la Cina di Xi Jinping, protagonista di una raffinata Maritime Strategy il cui principale strumento di Seapower è rappresentato dagli investimenti infrastrutturali della “Belt and Road Initiative”. Pechino, infatti, ben consapevole dei limiti di un Naval Power proiettato a decine di migliaia di chilometri dalla proprie basi, sta attuando una discreta e graduale, ma non per questo meno insidiosa, escalation verso il Mediterraneo usando come testa di ponte le proprie iniziative commerciali (ad esempio in Egitto e Grecia). A questo si aggiungono l’attivismo della base logistica di Gibuti (ufficialmente impiegata per antipirateria), le frequenti visite di unità militari ai porti del Nord Africa, e le esercitazioni multilaterali con russi ed egiziani di cui l’ultima si è svolta lo scorso agosto. Fenomeni, che nel loro complesso, rappresentato i primi segni di una presenza destinata a durare ed a ingarbugliare ulteriormente il fragile puzzle della stabilità e sicurezza in Mediterraneo.

In questo contesto così variegato per interessi ed ambizioni, l’Italia deve giocare in Mediterraneo una partita fondamentale per il proprio benessere e sviluppo. La strada maestra è ovviamente quella della piena partecipazione alle nostre storiche alleanze che ci hanno permesso di tutelare per oltre mezzo secolo il libero uso del mare, indispensabile ai nostri approvvigionamenti energetici e bilancia commerciale. Ma il nuovo quadro di potenze regionali e globali del Mediterraneo ci impone di rinvigorire già nel breve periodo, i fondamenti del Potere Marittimo italiano favorendo investimenti e sinergie tra tutti gli attori del cluster marittimo, senza trascurare il settore militare che è l’unico in grado di garantire libertà d’azione contro gli avversari, ed autonomia strategica nei rapporti con i paesi amici.

 

Manuel Moreno Minuto è analista militare



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