Quando oggi il presidente russo, Vladimir Putin, arriverà in Arabia Saudita per incontri a corte, tra cui quello con l’erede al trono e policy maker dei Saud Mohammed bin Salman, la situazione in Siria sarà al centro delle discussioni. Putin, con l’ovvio shift curdo verso il regime come extrema ratio difensiva davanti all’attacco turco, si trova in mano il pallino, incandescente, di una partita importante.
IL QUADRO SIRIANO
Se Donald Trump ha spiegato chiaramente che uscire dalla Siria è una sua priorità elettorale (la promessa di finire le “guerre infinite”), nel ritiro americano c’è anche una necessità strategica sentita da più parti degli apparati che sostengono il presidente (uscire dalle “guerre infinite” e poco proficue, come le chiama Trump, per concentrarsi su altri fronti che possono dare più ritorni in termini di prosperità agli Usa). È questo il concetto di fondo dietro all’America First, ma per Putin la situazione è diversa.
La Russia ha utilizzato la Siria, e l’inizio del ritiro americano (processo già avviato da Barack Obama, che lo charme del democratico rendeva soltanto più potabile), come trampolino per il Medio Oriente. Ha strutturato una presenza che ha salvato Bashar el Assad nella fase più critica della guerra civile e ha permesso al sanguinoso dittatore siriano di ritornare un elemento quasi potabile sui tavoli internazionali. Allo stesso tempo, da lì Mosca ha creato gli agganci giusti per costruire un’alleanza pragmatica e funzionale con l’Iran, avviare relazioni profonde con la Turchia, muoversi meglio nel Golfo.
Quello che succede oggi a Riad, la sovrapposizione di sfere di influenza data da un presidente russo che incontra il principale alleato mediorientale americano, fino a una decina d’anni fa sarebbe stato impensabile. Ma Putin ha anche tanto da perdere: la situazione in Siria vede le pretese di Ankara, Damasco, Teheran, Riad e Abu Dhabi, sapori contrastanti che nemmeno una bella dose di vodka moscovita può bastare per obliterare le note storte del cocktail geopolitico.
STABILITÀ ED ENERGIA
Infrastrutture, medicina e intelligenza artificiale sono i campi dei trenta accordi commerciali da 2,5miliardi di dollari che oggi Putin e MbS firmeranno, ma il tema di fondo è la stabilità geopolitica guardando all’energia. Lo sa bene Riad, che nelle scorse settimane ha visto la sua produzione ridursi di un mezzo per colpa di un attacco studiato dall’Iran su due infrastrutture petroliere nevralgiche. E la crisi innescata dall’operazione turca “Fonte di Pace” al nord della Siria controllata dalla Russia è un elemento di ulteriore preoccupazione in un bacino già caldissimo.
Il petrolio saudita è un interesse anche russo, e non a caso il primo ufficio all’estero del Fondo sovrano di Mosca è stato aperto proprio a Riad. C’è un contratto in ballo per investimenti di piccolo calibro per il momento, mentre l’obiettivo è la Saudi Aramco, il gigante petrolifero statale la cui privatizzazione è l’elemento guida della Vision 2030, il piano pensato da bin Salman per modernizzare l’Arabia Saudita partendo dalla differenziazione dal petrolio – non solo dal punto di vista economico, ma anche psicologico e mentale: il giovane principe vorrebbe che il suo regno non venisse più considerato, e non si considerasse più, soltanto un serbatoio di oro nero.
La reciprocità c’è, Putin è pronto a investire dove MbS vuole attrarre investimenti, le differenze restano. C’è un rapporto da definire: Mosca vorrebbe sostituirsi al ruolo statunitense di amico di certi paesi, ma questi chiedono molto di più di quello che Putin è disposto a dare. C’è una cooperazione nel quadro Opec+, ci sono collaborazioni commerciali, ma ancora in mezzo ai contatti restano distanze sul piano geopolitico. L’Arabia Saudita è impelagata nella guerra in Yemen, e la Russia ha un’alleanza che non intende mollare in questo momento (perché ha un uso anche anti-americano) con l’Iran – che nella guerra in Yemen è fornitore preferenziale degli armamenti usati contro i sauditi.
L’AMICO AMERICANO
Proprio l’Iran, o meglio la chiave anti-Iran è stata invece recentemente motivo in più nei rapporti tra Washington e Riad. Gli Stati Uniti hanno annunciato nei giorni scorsi il rafforzamento della propria presenza militare in Arabia Saudita in risposta agli attacchi ai due impianti petroliferi. Si tratta di uno schieramento difensivo, annunciato direttamente dal segretario al Pentagono, che comprende due batterie di Patriot, un sistema missilistico di intercettazione Thaad e uno squadrone di F-15C/D con capacità aria-aria, dunque in grado di intercettare droni o missili balistici.
Quello che è più interessante, però, leggendo la nota della Difesa statunitense è che con il rafforzamento gli Usa intendono creare su suolo saudita una cosiddetta AEW, acronimo di Air Expeditionary Wing. La creazione di un’AEW, un corpo aereo in grado mettere a rotazione ogni tipo di velivolo, è un segnale verso l’intenzione americana di tornare a piazzare in Arabia Saudita un contingente – con capacità logistiche, assetti e operatività – di lungo termine. Si tratta di un messaggio forte verso Riad, una conferma dell’impegno americano a fianco al regno che si inserisce all’interno di due dinamiche geopolitiche.
DINAMICHE ANTI-PUTIN E PRO-SAUDITI
La prima riguarda appunto i corteggiamenti russi – e cinesi, soprattutto sul lato alleato del Golfo, quello emiratino. Stare vicini a Riad su quello che i sauditi di MbS sentono come prima necessità: la difesa pro-attiva contro le influenze regionali dell’Iran. La seconda riguarda il Qatar. L’Arabia Saudita guida la squadra dei paesi della regione che tre anni fa hanno isolato Doha, accusata in modo formale di aiutare i gruppi terroristici e in modo più infimo di: primo, sostenere la Fratellanza musulmana; secondo, essere troppo lasca con l’Iran. Sulla divisione intra-Golfo si giocano alcuni movimenti – per esempio quelli collegati alla Libia – che seguono questa spaccatura di carattere ideologico/dottrinale, o più semplicemente di interpretazione del mondo. La divisone tra Riad e Abu Dhabi e Doha, che ha funzionalmente strutturato un allenamento con Ankara. Washington è messa in mezzo, si sbilancia sul primo raggruppamento, ma sa che è complicato mollare il secondo. Mosca gioca una partita ambigua, senza prendere posizioni.
La crisi al nord della Siria non è immune a queste dinamiche. I paesi del Golfo, per prima l’Arabia Saudita, hanno condannato l’attacco turco. Una posizione che sembra far spostare il baricentro verso l’odiato regime assadista, seppure in modo assolutamente sotto traccia. La Lega Araba, guidata da sauditi ed emiratini, ha emesso la prima accusa durissima di un organismo internazionale contro le ambizioni del presidente turco, il “pericoloso” (così definito) Recep Tayyp Erdogan. Il Qatar (con la Somalia) hanno espresso pubblicamente riserve sul comunicato della Lega, a cui ha risposto il delegato egiziano (alleato saudita) definendole una posizione di trincea a favore della Turchia.
SPOSTAMENTI GEOGRAFICI, TRAIETTORIE GEOPOLITICHE
Il tema è enorme. Il Qatar è un paese alleato americano che fa affari con tutti, così come lo è la Turchia, che custodisce i deterrenti nucleari e le basi Nato. Per i sauditi i primi sono nemici perché muovono le proprie pedine in concorrenza al regno con partner come Russia, Cina e Ue; i secondi sono i contendenti all’interno del confronto intra-sunnita. La creazione degli assetti AEW in Arabia Saudita può essere un metodo con cui iniziare a impostare lo spostamento di certe linee tattiche dalla base qatarina di Al Udeid? Sarebbe una faccenda importantissima per gli equilibri regionali e degli attori esterni interessati.
Se ne parla da tempo, a fine settembre il CentCom – il comando del Pentagono che gestisce il Medio Oriente e che ha nella base in Qatar il suo hub – ha condotto la prima operazione da Shaw, in North Carolina: è stata la prima volta – da quando per Desert Storm è stato stabilita la presenza diretta in Medio Oriente – che le attività del CentCom sono state coordinate dall’esterno della regione. Ai tempi l’hub era in Arabia Saudita, alla Prince Sultan Air Base (poi dopo l’attentato qaedista alle Khobar Tower del 1996, è iniziato lo spostamento per ragioni di sicurezza fino allo smantellamento).
Quest’ultimo avvicinamento americano a Riad ha dunque diverse chiavi, così come la visita di Putin, che vanno oltre le contingenze. Il presidente russo ha dimostrato capacità nel gestirsi all’interno di circostanze caotiche, anzi di sfruttarle a proprio vantaggio. Val la pena di far notare che un esperto di dinamiche mediorientali ha spiegato a chi scrive in termini confidenziali che a Riad si pensa a far ricadere sulla questione con il Qatar (che coinvolge anche Ankara, una linea di collegamento regionale per Doha) le punizioni collegate alla crisi innescata dall’attacco turco in Siria questa settimana. Dossier e piani che si intrecciano.