Il presidente russo, Vladimir Putin, ha ospitato il turco, Recep Tayyp Erdogan, per discutere della situazione in Siria. L’incontro è durato sei ore, molto più del previsto, tanto che i giornalisti che aspettavano per la conferenza stampa, già convocata a un orario comodo per permettere un margine di prolungamento delle discussioni, hanno dovuto subire un ritardo di oltre tre ore.
Putin ed Erdogan hanno molto da dirsi sulla Siria, perché da quando Donald Trump ha deciso che fosse meglio abbandonare il Paese (incassare i conseguenti consensi elettorali e shiftare la presenza Usa su aree mediorientali a maggiore interesse), sono le uniche due grandi potenze in campo a decidere il futuro del Paese e le aree d’influenza collegate. In realtà ci sarebbe pure l’Iran, che è stato un grande sostenitore delle repressioni che hanno obliterato la ribellione, ma sia Turchia che Russia sono alleati che mantengono scomodamente i rapporti con Teheran. Poi certo, sarebbe Damasco a dover dire qualcosa sul futuro della Siria, ma il rais Bashar el Assad sa che essersi salvato la testa ha un costo, aver vinto la guerra civile non è stato indolore, e per questo acconsente a certi passaggi politici ai quali non può arrivare.
La Russia ha interesse al processo di Astana, la via negoziale intrapresa con Turchia e Iran attraverso la quale mettere fine a otto anni di guerra civile. E l’interesse non è tanto legato a prendersi in mano una parte di Siria (quella mediterranea, chiaramente, dove Mosca ha già piazzato una base aerea e un’altra navale). C’è di più: Putin sa che se riuscirà nel piano di bloccare la guerra siriana e trovare una soluzione condivisa con la Turchia — che sostiene i ribelli che ormai combattono solo sul fronte di Idlib, e da dove forse verranno presto spazzati via — avrà un tema su cui vantarsi a livello internazionale. Una soluzione di un’enorme crisi internazionale su cui poter giocare un ruolo da broker globale — e poco importerà se alla fine dei conti il suo cliente Assad ha prodotto mezzo milione di morti.
Il progetto per la Siria l’ha messo sul tavolo Erdogan davanti ai fotografi presenti, dando adito a chi crede che tutto quello che è successo al nord siriano – il ritiro trumpiano e l’attacco turco contro i curdi – fosse un’accelerazione su un piano da tempo condiviso tra Erdogan e Putin per far fuori l’America da quella fascia geopolitica. Su questo le prime reazioni fredde da Mosca sarebbero state parte di una specie di messa in scena. Non sono necessarie nuove operazioni, ha annunciato il ministero della Difesa turca alla fine del colloquio tra i due leader. Ankara dice che con Putin è stato raggiunto un accordo “storico” e intende una spartizione del Paese che potrebbe accontentare tutti (almeno per il momento).
La Russia, sul campo con l’esercito siriano, si occuperà di spostare i combattenti curdi un tempo alleati americani oltre i 30 chilometri dal confine e creare quella che Erdogan chiama “safe zone” e che dovrebbe servire a ridistribuire i profughi ospitati in tutti questi anni di guerra (una specie di sostituzione etnica con cui spostare i nemici curdi dai loro territori ancestrali). Dalla prossima settimana, inoltre, su una fascia di confine fuori dal controllo di Ankara (che per ora va da Ras al-Ain e Tal Abyad) dovrebbe partire un pattugliamento congiunto russo-turco: sono zone che però passeranno all’amministrazione siriana. Mentre secondo l’accordo i russi — che ora coordinano in generale tutte le attività in Siria — dovrebbero tirare fuori i curdi anche dalla città nevralgica di Manbij. Resta poi la parte orientale, dove si vedrà che destino avranno i curdi che l’hanno liberata dallo Stato islamico insieme agli americani (i presupposti non sono ottimistici). Al regime, ossia ai russi, vanno in esclusiva le fasce costiere.
(Foto: Kremlin.ru)