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Salvini vs Renzi ovvero concretezza contro astrazione. L’analisi di Ippolito

Francesco Olgiati scrisse nel 1919 sulla Rivista di Filosofia Neo-scolastica un famoso saggio titolato “astrazione e concretezza”. La tesi era che queste due dimensione della conoscenza non possono mai essere separate.

In realtà, si sa bene che è molto difficile tenere insieme nella vita l’attenzione al particolare sensibile e la nostra vocazione intellettuale a pensare in universale. Comunque sia, guardando ieri il confronto a Porta a Porta tra Matteo Salvini e Matteo Renzi era facile rendersi conto come tale binomio sia originario in politica, e quindi quasi impossibile da ricomporre. Si tratta, a ben vedere, di ciò che Jacques Maritain riteneva fosse una distinzione antropologica fondamentale tra chi è di destra e chi è di sinistra, ossia tra chi guarda alla vicinanza e alla prossimità rispetto a chi invece, quasi per un intimo bisogno insopprimibile, preferisce il remoto e l’ulteriore.

Non so se sia veramente sempre così per tutti, ma di certo Salvini e Renzi hanno offerto un quadro suggestivo di questa banale psicologia sociale, una sorta di verifica del teorema della bipolarità metafisica della politica.

Già la sproporzione del peso elettorale è un primo indice del funzionamento di questa suggestione. Salvini è il capo del più importante partito politico italiano, la Lega, con oltre il 30 % di consensi. Renzi è invece un personaggio per ora soltanto virtuale e potenziale, sebbene sia stato “genialmente” incisivo nelle vicende ben note dell’agosto scorso.

Da un lato, la concretezza di una leadership; dall’altro, la potenzialità puramente agognata di possedere la capacità machiavellica per manovrare il sistema. Ma, tralasciando questo pur rilevante aspetto contingente, il progetto stesso dell’uno e dell’altro rientra in un parametro simbolico di antagonismo che attira tutti noi, il nostro modo di approcciarci alle cose della vita, forse l’indole spirituale che ci attraversa, per usare l’espressione parafrasata di Jean-Christian Petitfils.

Nelle reciproche accuse che i due Matteo si sono rivolti si è svelata e confermata la corrispondente identità, il giano bifronte che li oppone come prototipi e li unisce in quell’arcano spazio simbolico di società che è la nostra comunità nazionale.

Salvini è la semplicità del buon senso, il realismo della classe media, la figura politica che incarna dentro di sé il nostro essere gente comune, validato dall’identificazione continua del capitano con il suo popolo. L’essere uomo di sagre, di proloco e appartenere al genere prossimo degli abitatori della terra locale lo rende rassicurante e forte di questa potente capacità di fusione popolare. Il consenso che ha deriva dal modo in cui i suoi seguaci votanti si sentono lui e lo sentono tutt’uno con sé, con le proprie paure, con le relative esigenze e con il bisogno di condividere e stare insieme opponendosi ad un mondo crudele, ipocrita e poco trasparente. È la destra nella sua più fascinosa e suggestiva presentificazione di Jeunes gens agathoniana, descritto genialmente un secolo fa da Henri Massis.

Renzi è il campione della simpatica arroganza, della volontà di emergere di una media borghesia arrampicatrice che interpreta il progresso soprattutto come arte di arrangiarsi e di saltare al di sopra della massa con artifici e brillantezza individualmente architettata. Il suo scenario crea un’identificazione totalmente politica con sé, un campo di attrazione verso quella meta ulteriore che ognuno ha in serbo e vuole imparare a ottenere da lui, uscendo dal comune e dal consueto. È la sinistra nel suo evoluzionismo pop-moderno.

Il richiamo tematico e programmatico poco conta. Ognuno di noi sente e sa chi preferisce dei due, semplicemente perché è o ritiene di essere più o meno corrispondente ad una delle due mentalità.

Il consenso di Renzi fa fatica oggi, a causa del realismo latente, per la debolezza intrinseca che i temi evocati hanno nel riuscire a penetrare e non solo a carezzare il senso comune. Per essere renziani ci vuole tanto coraggio e molta sfrontata prosopopea. Si potrebbe dire che dieci anni fa tale astrazione ottimista poteva funzionare meglio, come rifugio verso una trascendenza di senso a cui la nuova sinistra rottamatrice e riformatrice della Leopolda sapeva dare un terreno suggestivo, fertile e fecondo in cui proliferare. Oggi no, siamo tutti invecchiati, la nostra civiltà lo è nella sua percezione di decadenza sorrentiniana che ha introiettato profondamente i cupi presagi del quotidiano: l’illusione migliorista non arriva più nel cuore, non scende giù, e l’ambizione arrogantella non evoca sogni, ma determina macabri scenari di fregature subite o temute da ognuno quando arriva la sera: fiscali, internazionali, bancarie o persino locali e condominiali.

Salvini è l’emblema dello stare con i piedi per terra e del difendersi collettivo del nostro noi, impantanato ormai in tante difficoltà globali. Egli interpreta pienamente la forza del conservatorismo di oggi, senza le aspirazioni ideologiche di Robert Nisbet, ma con quel modesto tenere ciò che si ha e salvaguardare la peculiarità del nostro essere comunità, modellato perfettamente da Russell Kirk per l’America profonda del Secondo Dopoguerra.

D’altronde, il conservatore, diceva Prezzolini, è colui che preferisce i mali che conosce a quelli che non conosce. Salvini è l’ultima spiaggia di una nazione spossata, sfiduciata ed impaurita che vuole difendere la propria dignità nella concretezza del proprio modo di essere un popolo cristiano, provinciale e singolare, non sottoponibile allo sfratto di civiltà, con tutto il sano e modesto disincanto che ciò implica e significa.

Salvini è la politica come aderenza di tutti noi alla propria parte di mondo, megafono politico del plebiscito quotidiano, secondo la definizione che Ernst Renan ha dato di nazione. Egli dice ciò che siamo nella nostra nuda e cruda autenticità, senza alcuna presa di distanza. Renzi incarna invece l’astrazione del possibile, la speranza dell’essere altrimenti, a cui, non a caso, aspira soltanto una piccola parte di italiani, ancora speransosi nelle cose invisibili. Califano aggiungerebbe, a ben vedere, che tutto il resto è noia.

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