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Tutti gli ostacoli (e le incognite) per la pacificazione della Libia

Di Lorenzo Marinone

A metà settembre, la Germania ha annunciato la preparazione di una conferenza internazionale sulla Libia che si dovrebbe tenere entro l’autunno, probabilmente nel mese di novembre. L’iniziativa guidata da Berlino arriva dopo una lunga serie di tentativi precedenti di ricomporre la frattura istituzionale tra Est e Ovest del Paese, pacificare le diverse fazioni e giungere infine a nuove elezioni. Nessuno di essi, tuttavia, ha mai portato a risultati tangibili nonostante i diversi formati adottati, né è stato realmente capace di supportare il percorso diplomatico tracciato dall’Inviato dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamé.

Gli incontri promossi dal presidente francese Emmanuel Macron (luglio 2017 e maggio 2018), al pari di quelli tenuti ad Abu Dhabi (l’ultimo nel febbraio 2019), hanno scontato il coinvolgimento di un numero di rappresentanti libici estremamente ridotto. E anche il tentativo italiano con la conferenza del novembre 2018 a Palermo, pur a fronte di una platea molto più rappresentativa delle fazioni libiche e degli attori esterni coinvolti nelle vicende del Paese, ha scontato le divisioni che ci sono nel Paese e non solo.

Alla luce dei precedenti, già sulla carta il compito assunto dalla Germania appare piuttosto arduo. L’elemento di novità che può facilitare in parte Berlino è il non avere avuto finora un coinvolgimento diretto nelle vicende libiche, al contrario di Italia, Francia, Emirati Arabi Uniti, Qatar o Turchia. Di conseguenza, l’impegno tedesco può essere percepito, soprattutto in Libia, come neutrale.

Tuttavia, la conferenza in preparazione si situa in un contesto, sia libico che regionale, che presenta differenze decisive rispetto a quello di appena 6 mesi fa. Infatti, l’attacco a Tripoli del generale Khalifa Haftar (con cui molti ritengono di non voler e dover negoziare), comandante delle forze dell’Est inquadrate sotto l’ombrello dell’Esercito Nazionale Libico (Enl), lanciato lo scorso 4 aprile e tuttora in corso, ha drasticamente mutato le carte in tavola.

L’offensiva si è sostanzialmente arenata a causa dell’equilibrio delle forze in campo, già nelle prime settimane. Haftar non ha raggiunto i suoi obiettivi militari (il controllo totale di Tripoli e dei suoi principali snodi strategici). Anzi, con la perdita di Ghariyan lo scorso giugno e il suo indebolimento sul fronte di Tarhouna a metà settembre, il generale rischia di doversi ritirare sulle posizioni in cui era attestato ancora l’anno scorso, ben distante dalla capitale. Parimenti, egli non ha raggiunto alcuno dei suoi obiettivi politici. Questi ultimi possono essere riassunti nel tentativo di delegittimare il governo di Serraj e privarlo del sostegno internazionale (anzi, gli Usa hanno recentemente rilanciato all’esecutivo il loro supporto); nel porre la Comunità Internazionale di fronte ad un fatto compiuto e reimpostare così l’intero percorso diplomatico guidato dall’Onu su basi più favorevoli ad Haftar; nell’agevolare il generale verso l’ottenimento di un doppio ruolo, politico e militare, attraverso il quale sarebbe possibile orientare in maniera determinante il futuro assetto del Paese.

Dunque, il protrarsi dell’offensiva ha aumentato la polarizzazione interna. Giocoforza, questa dinamica ha dissipato tutto il residuo (e già minimo) capitale di fiducia reciproca tra le parti. Nella prospettiva di una riattivazione degli sforzi diplomatici, questo punto appare fondamentale. Infatti, in precedenza era possibile ipotizzare che un accordo potesse sopravvivere ai leader che l’avrebbero sottoscritto, qualora la maggior parte delle fazioni libiche vi vedessero sufficienti garanzie. Il prolungamento indefinito dell’offensiva di Haftar, tuttavia, non soltanto ha rinvigorito e accelerato il processo di frammentazione sociale in atto da tempo, ma continua anche a produrre nuovi motivi di odio legati ai danneggiamenti materiali e alle perdite umane.

La conseguenza più rilevante del riaccendersi del conflitto libico, ad ogni modo, va individuata nel maggior coinvolgimento diretto di potenze esterne, che prendono anche parte attiva ai combattimenti e sostengono le diverse fazioni dal punto di vista logistico e militare. Di fatto, il territorio libico oggi non è soltanto il luogo di uno scontro tra milizie rivali e signori della guerra. Esso è, precisamente a causa dell’offensiva di Haftar, il teatro di una guerra per procura tra la Turchia e il Qatar da un lato, e gli Emirati (supportati dall’Egitto) dall’altro, cui si deve aggiungere un appoggio de facto, per quanto indiretto e limitato apparentemente al piano diplomatico, anche della Francia. Nel prosieguo delle ostilità, inevitabilmente, ogni mossa di uno degli attori esterni provoca l’immediata reazione del rivale, in un crescendo che rende meno disposte entrambe le parti ad accettare una soluzione diplomatica senza aver prima conseguito delle vittorie decisive sul campo.

A ben vedere, dunque, con il protrarsi del conflitto e la sclerotizzazione del dialogo tra le parti, la Libia rischia di trasformarsi definitivamente in un punto di sfogo della competizione per l’egemonia regionale che origina dal cuore del Medio Oriente. L’ingresso di dinamiche esogene nel contesto libico, di conseguenza, non può che rendere ancora più complesso dipanare l’intreccio, sempre più fitto, di interessi contrapposti con i soli strumenti della diplomazia.

 

Lorenzo Marinone è analista responsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.S.I. – Centro Studi Internazionali


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