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La Turchia, i curdi e l’ipocrisia europea. L’analisi di Vespa

La guerra della Turchia contro i curdi in Siria presenta diverse chiavi di lettura: sulla geopolitica per le conseguenze sull’intero Medio Oriente e sul Mediterraneo, sul terrorismo, sul ruolo dell’Unione europea in un’area in costante fibrillazione. Un’analisi su una guerra considerata lontana da noi e i cui effetti, invece, ci riguarderanno a breve e medio termine e su come cambia lo scenario mediorientale è stata fatta in un convegno del Cespi, Centro studi di politica internazionale, e del Cesi, Centro studi internazionali, moderato da Antonio Di Bella, direttore di Rai News 24.

Per capire una guerra bisogna guardarla da più punti di vista. Carlo Marsili, già ambasciatore italiano in Turchia, ha ricordato che Ankara non fa la guerra ai curdi in quanto tali, bensì al Pkk, partito compreso nell’elenco delle organizzazioni terroristiche della Nato e dell’Ue. Nelle operazioni militari scattate nel nord della Siria l’obiettivo è la milizia Ypg, i curdo-siriani che hanno combattuto e sconfitto sul terreno i terroristi dell’Isis ma che, ha spiegato Marsili, per i turchi “sono l’altra faccia del Pkk”. Dunque il governo di Recep Tayyip Erdogan per motivi di sicurezza nazionale non accetta né uno Stato né una zona autonoma ai propri confini. La questione è vecchia e complessa: per esempio in Turchia non si può parlare di guerra né di invasione se si vogliono evitare conseguenze penali, ha detto Lea Nocera, docente di Lingua e letteratura turca all’Università L’Orientale di Napoli, e i curdi non sono un monolite perché i 13-15 milioni presenti in Turchia hanno quattro variazioni linguistiche e di fatto rappresentano “un paradigma del rapporto con le minoranze”.

I curdi, inoltre, sono di tre “tipi” conosciuti bene dall’ambasciatore Marsili, per sette anni ad Ankara: quelli integrati che hanno ricoperto anche incarichi di governo, quelli che ambiscono a un’autonomia sul modello del Trentino Alto Adige e quelli vicini al Pkk. In tutto in una nazione membro della Nato e in trattative (ora bloccate) per entrare nell’Ue. Considerando l’ebollizione dell’intero Medio Oriente, Piero Fassino, presidente del Cespi, ha spiegato che o si considera il Mediterraneo come frontiera oppure come una regione meridionale dell’Europa: “L’Africa e il Mediterraneo non vanno intese come due entità – ha detto Fassino – bensì come un unico macrocontinente insieme con l’Europa”. I motivi sono banalmente demografici: oggi l’Europa con la Russia ha 850 milioni di abitanti che alla fine del secolo scenderanno di 60-70 milioni; l’Africa oggi ne conta 1,3 miliardi che alla fine del secolo saranno 4 miliardi: la Nigeria diventerà il terzo Paese più popoloso al mondo, superando gli Stati Uniti.

La crisi in corso ha riflessi anche militari perché la Turchia fa parte della Nato. Andrea Margelletti, presidente del Cesi, ha spiegato che l’Alleanza atlantica, nata “per reagire” a eventuali attacchi del Patto di Varsavia, “si è reinventata dopo la caduta del Muro di Berlino, ma non ha una policy sul Medio Oriente”. Un’eventuale uscita della Turchia dalla Nato “avrebbe conseguenze peggiori della Brexit” e in questo momento, “nel vuoto europeo, Ankara cerca di avere un ruolo”. Margelletti ha anche spiegato una triste verità: la guerra contro i curdi e la milizia Ypg, che ha perso migliaia di uomini e donne per combattere il Califfato e quindi (anche) per difendere l’Europa, si sarebbe evitata se truppe europee si fossero aggiunte a quelle già presenti nell’area. Ma non è avvenuto. Lo spostamento dei militari statunitensi secondo il presidente del Cesi è l’ulteriore prova che “gli Usa stanno consegnando il Medio Oriente alla Russia e bisognerebbe chiedersi perché Donald Trump fa una politica suicida”. Allo stesso tempo, va dato atto alla Russia “di mantenere le promesse al contrario degli europei”.

Il futuro? Per Margelletti “dovremo dialogare con Mosca”, per Fassino sarebbe un errore se l’Unione europea annullasse, dopo averle sospese, le trattative con la Turchia perché “un conto è il governo, un altro il Paese”. Le elezioni amministrative, con alcune sconfitte per Erdogan, hanno dimostrato che “la società civile turca non smette di lottare”. Resta l’ipocrisia di sempre: per ogni crisi nel mondo si auspica una soluzione politica che non arriva mai.


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