Gli Stati europei non sanno quanti sono esattamente i foreign fighter partiti dai propri territori per andare a combattere in Siria e in Iraq: nessuno ha l’elenco completo. Questo aumenta i rischi potenziali perché quando un migrante sbarca in Italia e viene schedato non necessariamente si trova un riscontro nel database. L’ammissione del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero de Raho, da un lato spiega la complessità della lotta al terrorismo, dall’altro è accompagnata dalla conferma dell’altissima qualità di controlli e prevenzione che riduce di molto il rischio. Il procuratore ha parlato alla presentazione del libro “Galassia islamica. Le ragioni dei terrore” (Intermedia) di Sandro Menichelli, dirigente dell’Ispettorato di Ps della Camera, libro che il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha definito una “bussola per orientarsi”.
Conoscere l’altro e riconoscersi reciprocamente per combattere insieme l’estremismo è il filo conduttore del libro che spiega il disagio e l’emarginazione su cui poggia la rabbia di chi, come ha detto Cafiero de Raho, reagisce con violenza a un modello che non vuole includerlo. Il procuratore è stato realista: la questione foreign fighter rappresenta un “grande rischio, in passato pensavamo che i jihadisti non potessero entrare mescolandosi tra gli immigrati anche perché l’Isis era impegnata sul terreno”. Ora la situazione è cambiata: se il centro di intelligence dell’Unione europea conta 5.472 combattenti partiti versi i teatri di guerra, in realtà nessuno sa quanti siano esattamente anche se la Direzione centrale della Polizia di prevenzione (l’antiterrorismo) continua ad acquisire elementi.
Le rotte possibili sono quelle note, tutte vicine all’Italia: i Balcani, la Libia, l’Adriatico. In Italia sono tornati 10 combattenti, di cui 3 detenuti e gli altri 7 monitorati 24 ore al giorno. Ma l’Italia (con tutti gli scongiuri possibili di Gabrielli alle parole di Cafiero) “ha la migliore polizia giudiziaria del mondo e il livello di controllo è talmente elevato da ridurre fortemente i rischi”. Di fronte a una platea di esperti e di politici di primo piano (il presidente della Camera, Roberto Fico, Marco Minniti, Maria Elena Boschi, Gennaro Migliore) nel dibattito moderato da Marta Ottaviani il punto centrale è stata la realtà delle comunità islamiche: “Se parliamo di Islam come di un monolite uguale a se stesso nel mondo – ha detto Menichelli – faticheremo sempre a comprendere le istanze degli islamici perché gli Islam sono tanti quante sono le comunità”, ognuna delle quali si rifà a una diversa scuola giuridica con interpretazioni più o meno rigide. Più che di galassia “dovremmo parlare di pulviscolo”.
L’esperienza italiana basata sugli anni della lotta alla mafia e al terrorismo ci aiuta ed è difficile da comprendere da quei Paesi europei che non hanno vissuto fenomeni analoghi. “Il potere non è detenere informazioni, il potere è condividerle” ha detto Gabrielli che sui rapporti con le comunità ha fatto riferimento al Patto nazionale per un Islam italiano firmato nel 2017 con Minniti al Viminale: fare sermoni in italiano rappresenta una modalità per riconoscersi e anche rassicurare gli italiani. Ancora più semplicemente, il capo della Polizia ha ricordato lo slogan degli anni Settanta “né con lo Stato né con le Br” finché qualcuno capì da che parte stare. L’obiettivo dev’essere quello di coinvolgere le comunità islamiche ad abbandonare “l’agnostica distanza come se il problema non le riguardasse” e a operare la stessa scelta: porsi dal lato dello Stato italiano senza sollecitare una “cultura delatoria” bensì “una cultura della consapevolezza” trovando convergenze in mezzo a oggettive difficoltà.
Sullo sfondo resta il tema della deradicalizzazione che per Gabrielli è “meno coinvolgente” perché il disagio non è sempre economico e bisogna lavorare di più sull’aspetto culturale. Allo stesso tempo, Menichelli si è augurato un ruolo della scuola, dei corpi intermedi, degli enti locali “per capire chi abbiamo di fronte”: un pulviscolo più che una galassia.