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Crisi turco-siriana. Occhio alle azioni di Iran e Russia. L’analisi di Camporini

Sulla crisi turco-curda in Siria è già stato detto e scritto molto e il rischio concreto è quello di apparire ripetitivi, reiterando valutazioni sui comportamenti incongruenti degli Stati Uniti, sulle frustrate ambizioni curde di una propria statualità, sul rischio del riemergere di organizzazioni di stampo terroristico, eredi dell’Isis. Non ci si è invece soffermati sugli atteggiamenti e le possibili reazioni degli altri attori in gioco, su cui al contrario è necessario fare qualche riflessione, per comprendere ed eventualmente agire.

Cominciamo dall’Iran: la comunità curda assomma più di 10 milioni che abitano la fascia occidentale del paese; nel passato recente sono stati oggetto di una repressione piuttosto dura, pur godendo di una certa autonomia; episodi di attacchi terroristici si verificano con una certa frequenza, con pesanti reazioni da parte governativa. Le pulsioni di irredentismo pan-curdo non sembrano molto diffuse, pur tuttavia Teheran non abbassa certo la guardia: il sostegno al regime di Assad in Siria rimane un punto fermo e l’atteggiamento nei confronti delle milizie curde è funzionale a tale appoggio. L’iniziativa turca da un lato è volta a impedire un’eccessiva autonomia della comunità curda in Siria, dall’altro può favorire una risorgenza del sunnismo fondamentalista contrario al regime e questa ambivalenza giustifica un certo attendismo.

Quello che ci riguarda più da vicino è quello che farà la Russia di Putin, che ha saputo sfruttare in modo straordinario le opportunità offerte in questa decade dalle crisi mediorientali per ritornare prepotentemente al centro del grande gioco geostrategico. Il millenario sogno di Mosca di avere un solido punto d’appoggio nel Mediterraneo si è concretizzato ed è ormai chiaro a tutti che nessun passo avanti per la stabilizzazione dell’area si potrà fare senza un coinvolgimento diretto della Russia. In questo quadro si deve interpretare il rapporto problematico con Ankara. Dalla sua adesione alla Nato nel 1952 (contemporaneamente alla Grecia) la Turchia è stato un baluardo insostituibile nei confronti dell’Unione Sovietica e l’ostilità e il sospetto reciproco non si è certo attenuato con la caduta del muro di Berlino.

Nel corso del conflitto civile siriano ci sono stati momenti di altissima tensione, come in occasione dell’agguato aereo che ha portato all’abbattimento di un Sukhoi russo il 24 novembre 2015 da parte di F16 dell’Aeronautica turca, che si inseriva nell’aperta contrarietà di Ankara al supporto determinante da parte di Mosca al regime di Assad il quale solo grazie a questo supporto ha potuto mantenersi al potere e contro il quale la Turchia si era all’inizio apertamente schierata, al punto di facilitare rifornimenti e rinforzi all’Isis.

L’avvio delle operazioni militari da parte turca, con il dichiarato intendimento di mutare gli equilibri etnici in un’ampia fascia del territorio siriano, con una ritrovata assonanza con il governo di Damasco, è certamente guardato con grande attenzione e magari con un po’ di preoccupazione da parte russa e al tempo stesso come una sorgente di nuove opportunità e la posizione assunta in sede di Nazioni Unite di somma prudenza nei confronti della proposta di risoluzione di condanna ne è la chiara evidenza. I timori di vedere messi a rischio i risultati strategici fin qui ottenuti si accostano alla soddisfazione di vedere ulteriormente incrinato il rapporto di Ankara con i più influenti membri dell’Unione Europea: strappare Ankara dalla storica alleanza con l’Occidente costituirebbe per Mosca una svolta epocale e una sorta di rivincita sull’esito della guerra fredda.

La Russia dunque sta a guardare, con un piede ben piantato nel Mediterraneo e con la concreta possibilità di non trovare più sul suo fianco meridionale un bastione di contenimento, ma al contrario un grande paese, come la Turchia con cui gli interessi tendono a convergere. Certo un bel risultato strategico per un Presidente Usa, il cui unico obiettivo appare essere la rielezione, anche se ciò comporterà un indebolimento del proprio paese nello scenario globale.

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