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L’offensiva turca in Siria apre spazi per l’Iran?

Il senatore repubblicano Mitt Romney è stato tra i primi a Capitol Hill a contestare la scelta del presidente Donald Trump di ritirare i soldati dalla Siria. S’è mosso pure prima di alcuni democratici come Nancy Pelosi, che pure ieri s’è alzata in piedi durante una riunione alla Casa Bianca e ha gridato, dito puntato, in faccia al presidente il suo rancore. L’immagine della Speaker della Camera feroce durante un briefing con il commander-in-chief catturata da uno dei fotografi presenti è destinata a restare tra i simboli non solo di questi giorni, ma di stagione politica; Trump l’ha usata per sfottere Pelosi, “è nervosetta”, lei l’ha messa come sfondo sul profilo Twitter. Un gagliardetto da esporre ai suoi tre milioni di follower — negli Usa il prossimo anno si vota, e questo non va dimenticato.

Mentre Trump e i Democratici si incontravano alla Casa Bianca per discutere le policy nel Medio Oriente, Romney prendeva la parola alla riunione specifica sull’Iran durante un incontro della Commissione Esteri del Senato dicendo: “La posizione del potere dell’Iran è notevolmente aumentata con la Turchia che ha spazzato via i nostri amici, i curdi, in Siria. Poiché gli Stati Uniti stanno abbandonando la propria posizione in Siria, Assad sta diventando più forte e l’Iran sorride da un orecchio all’altro. Questo è un disastro di politica estera”.

Come per Pelosi, anche nel caso di Romney non va sottovalutata la lettura politica della situazione: il repubblicano dello Utah non è mai stato morbido con il presidente Trump, e usa la questione innescata dal ritiro dalla Siria — “il tradimento” ai curdi, l’attacco turco, il nuovo equilibrio di potenza su cui Mosca cerca spazi — come un tema. Lo affronta come una questione più larga, che riguarda l’identità americana, ma anche nello specifico dell’Iran — che dagli Usa è considerato un nemico. Tanto basta per attaccare la Casa Bianca. Romney è uno dei tanti; altri pezzi del Partito Repubblicano hanno via via preso posizioni simili su svariati temi.

La questione Iran esiste, però. Quando il ritiro delle truppe dalla Siria era diventato un tema di crescente utilizzo elettorale da parte di Donald Trump — parliamo del settembre e poi del dicembre 2018 — diverse voci si erano sollevate rapidamente per assicurare che niente sarebbe successo sotto due chiavi. La prima era la lotta al terrorismo dello Stato islamico, ingaggiata proprio insieme ai curdi (e adesso oggetto di preoccupazione perché rischia di indebolirsi con la rottura con i curdi, e l’offensiva turca potrebbe riaprire spazi di rinvigorimento per l’Isis). La seconda era proprio il contenimento iraniano.

Teheran ha sfruttato il conflitto siriano per rafforzarsi nella regione. Ha aiutato il regime di Bashar al Assad per interesse diretto: l’aumento della sfera di influenza, lo sbocco sul Mediterraneo, avere più campo nello scontro ideologico con Israele e i regni sunniti del Golfo. La Siria — con l’assenso pragmatico russo — è stata trasformata in una sorta di piattaforma militare e geopolitica dall’Iran. La Repubblica islamica ha sfruttato il contesto per rafforzare i legami con una serie fitta di realtà ideologiche (partiti/milizia sciiti) diffuse in tutta la regione. È stato un test per vedere presa e fedeltà di gruppi come gli Hezbollah libanesi, e si è concluso positivamente.

Davanti alle preoccupate denunce degli alleati regionali americani — Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi su tutti — rispondevano con una garanzia di reciprocità riguardo l’impegno contro l’Iran. Era anche quella una rottura col passato obamaniano, motivo conduttore di tutta l’amministrazione Trump: quegli alleati si sentivano a disagio per l’inazione americana sul conflitto civile siriano, culminata col favore all’Iran con la costruzione del Jcpoa. E infatti Trump lo aveva criticato da subito e ne ha tirato fuori gli Usa.

Quasi un anno fa, c’era il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, che si era speso personalmente sulle garanzie anti-iraniane; ma poi ha lasciato il suo ruolo per incomprensioni. I disaccordi sulla Siria erano costati anche le dimissioni del capo del Pentagono, il generale Jim Mattis, che diceva: non possiamo uscire, dobbiamo finire il lavoro con l’Isis e non possiamo lasciare la Siria a russi e iraniani. Così come il delegato per la crisi siriana James Jeffrey. Tutti spiegavano che gli Stati Uniti non avrebbero mai tolto le truppe dalla Siria perché, sebbene fosse un contingente minimo, aveva un ruolo operativo, politico e strategico importante — e invece.

Tanto più con le intemperanze degli ultimi mesi. La guerra delle petroliere, lo Yemen, il ritorno dei problemi al sud del Libano (mossi da Hezbollah, pronta a far la guerra contro Israele), gli attacchi agli impianti petroliferi sauditi. Episodi in cui l’Iran ha giocato un ruolo da protagonista. Adesso, la resa dei curdi al regime, con l’accordo d’utilità per proteggersi dall’operazione turca, favorisce Damasco e i suoi alleati con una conquista territoriale inaspettata (per quanto pensata e sperata) fino a qualche mese fa. E nello spazio creato dal ritiro americano non è detto che tutti gli attori in campo non trovino nuovi equilibri. Per il momento Mosca ha attaccato la Turchia per l’ambizione territoriale in Siria, ma per la Russia ciò che conta è il mantenimento di pesi e contrappesi per il futuro. Ankara e Mosca, con Damasco e Teheran, potrebbero trovare un qualche genere d’intesa.

Gli americani resteranno nell’area, parte dislocati in Iraq o Paesi vicini. Questo è chiaro, per ora. Una piccola guarnigione resterà anche in Siria, ad al Tanf, nel sud, dove sbocca il Corridoio dell’Eufrate. È un territorio di caccia contro i seguaci dello Stato islamico, ma è anche una direttrice importante che collega Siria e Iraq: là, lo scorso anno, ci sono stati gli unici episodi in cui le forze comandate dall’Iran si sono scontrate con le forze speciali Usa.

Dall’Iran però si sentono già il vento alle spalle: tre giorni fa il presidente Hassan Rouhani s‘è preso lo spazio per accusare “un attore statale” per quello che è successo davanti alle coste di Jedda alla petroliera “Sabiti” (a bordo della quale una decina di giorni fa ci sono state due esplosioni, che secondo l’Iran sono state causate da missili). Certa disinvoltura è probabilmente frutto del momento. Tuttavia Israele e Golfo stanno già trattando con la Russia linee di contenimento parallele a quelle statunitensi nei riguardi dell’Iran.



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